Il conflitto israelo-palestinese torna a visitare e dividere le opinioni pubbliche occidentali con impressionante, sconfortante regolarità. Lungo i decenni sono cambiati profondamente il contesto internazionale e le coordinate geopolitiche.

Non cambiano di molto, invece, le caratteristiche endemiche del conflitto che continua a svolgersi in una spaventosa continuità dall’epoca della Guerra fredda.
Gli ultimi drammatici eventi, la guerra di 50 giorni che ha provocato circa duemila morti tra i Palestinesi e un centinaio tra gli Israeliani, sono infatti “solo” l’ennesima dimostrazione, lungo i decenni, del permanere del focolaio del conflitto, della sua immutabilità.
Proprio il carattere ciclico degli eventi finisce con il relegarli in uno spazio di dibattito che sta fuori dalla storia, dai torti, dalle ragioni, dai fatti, per far assumere alle narrazioni sul conflitto una funzione identitaria che poco o nulla ha a che fare con la realtà concreta, drammatica, colpevole dei popoli e delle classi dirigenti coinvolte.
In questo modo, il ripetuto lancio di razzi dalla Striscia di Gaza, sempre intercettati dai sistemi di difesa israeliana, e la durissima repressione dell’esercito d’Israele, anche questa volta hanno generato proteste, dichiarazioni critiche e declinazioni identitarie plasmate su interpretazioni opposte degli elementi fondanti del conflitto e dei fatti di questo agosto.
In questo contesto sembra sempre più difficile provare a definire le molte ragioni e i tanti torti di ambo le parti, sulla base di strumenti analitici razionali, tenendo conto del diritto internazionale e senza poter trascurare gli oggettivi rapporti di forza in campo. Sembra sempre più difficile, insomma, guardare a quel conflitto, a quel pezzo di mondo, attribuendo a essi il peso materiale che hanno, e non quello simbolico, politico e religioso che hanno ereditato dai millenni. È forse per queste ragioni, per questo strapotere dei simboli rispetto agli interessi in campo, che è sempre più difficile ricordare, razionalmente, che una soluzione c’è, sicuramente, perché non può non esserci come in ogni cosa fatta dagli uomini.
Altrettanto, la sclerotizzazione del dibattito su posizioni identitarie e di tifoseria finisce col far perdere di vista che, nella vicenda mediorientale, i torti e gli errori storici, il cinismo tattico e la miopia strategica, sono ampiamente condivisi dalle leadership e dalle popolazioni israeliana e palestinese, anche se certo le proporzioni e i rapporti di forza sono diversi e cambiano nel corso della storia.
Dicevamo dunque, una soluzione c’è, non può non esserci. Una soluzione, in questo caso, che fu anche in un paio di passaggi sfiorata, discussa, e poi archiviata “grazie” all’improvvisa recrudescenza del conflitto, all’inatteso ritorno alle armi e alla violenza a tutto discapito, ovviamente, degli strumenti della diplomazia e della politica.
La soluzione passa, naturalmente, per la strada che fece stringere la mano a Rabin e Arafat sotto lo sguardo benedicente di Bill Clinton. È la stessa strada che portò, dopo l’assassinio di Rabin, a ricostituire, su basi assai più fragili, gli stessi fili del dialogo tra Arafat ed Ehud Barak. È, in fondo, la stessa via che percorse – senza un confronto con una controparte ritenuta definitivamente inaffidabile – Ariel Sharon nell’ultima fase della sua vita, quando decise unilateralmente il ritiro da Gaza, la fine della colonizzazione e della presenza militare nella Striscia.
Questa soluzione passa dal riconoscimento definitivo del diritto all’esistenza di uno Stato ebraico e di uno Stato palestinese, che coabitino pacificamente, che rispettino i confini dell’altro come si fa tra buoni vicini di casa. Per arrivare a questo obiettivo di pace e convivenza stabile, il primo nodo da sciogliere è proprio quello della colonizzazione ebraica nei Territori occupati nel 1967 alla fine della Guerra dei sei giorni.
Lo aveva capito Clinton, e con lui Rabin, ai tempi di Oslo. Lo sapeva Ehud Barak, che non aveva all’interno e dall’altra parte condizioni politiche decenti. Lo capì e a suo modo agì di conseguenza perfino Ariel Sharon, che liberando Gaza da quelle poche migliaia di coloni, in fondo, realizzò un gesto dal simbolismo tanto più forte dell’effettiva portata pratica dell’atto: e dimostrando che, volendo, si poteva fare. Ma chi sa meglio di tutti che una progressiva fine dell’occupazione realizzerebbe le condizioni psicologiche e materiali per una spartizione su base nazionale, ancora di più di chi ci ha provato, sono ovviamente i nemici della pace. Sono, per essere chiari, le forze e le personalità politiche che del perdurare del conflitto vivono e si alimentano da decenni.
Sono i Palestinesi di Hamas (e ieri fu Arafat col suo cerchio magico) che rifiutano programmaticamente un accordo perché non accettano per statuto l’esistenza di Israele. E, di contro, sono i leader israeliani alla Netanyahu, che da un ventennio pieno, ormai, vive politicamente dei fallimenti dei leader che cercano di condurre in porto una trattativa di pace, o una pace unilaterale ma vera, sostanziale, duratura.
La soluzione insomma c’è, passa per il ritiro quasi integrale delle colonie nel West Bank, da una divisione ragionevole di Gerusalemme, da una soluzione simbolica dell’ormai secolare problema dei profughi. La soluzione è lì, complicatissima ma possibile, basta volerla.
Il conflitto israelo-palestinese torna a visitare e dividere le opinioni pubbliche occidentali con impressionante, sconfortante regolarità. Lungo i decenni sono cambiati profondamente il contesto internazionale e le coordinate geopolitiche.