Gli Inglesi l’hanno incoronato per ribadire la loro volontà di uscire dall’Ue. Mezzo Regno gli è contro, inclusa Londra. Siamo alla vigilia di UKexit?
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Erano “le elezioni più importanti di una generazione”, il “voto per l’anima del Paese”. Fino alla vigilia, tutti gli scenari sembravano possibili. È finita con Boris che incassa tutto: una maggioranza parlamentare di 80 seggi, la Brexit, la debacle epocale del Labour, una presa di lunga durata sul Partito Conservatore e sull’intero Paese. Perfino il rapido riposizionamento di tanta stampa, che di fronte alla vittoria si inchina all’uomo che fino a poco prima raccontava come clown, poi come Joker e oggi è un grande leader, forse perfino il Pericle da lui tanto ammirato. Non conta più che abbia mentito, che insulti avversari e minoranze, che il suo programma sia una riproposizione dello status quo in un pacchetto fiammante di promesse di soldi pubblici da prendere chissà dove, che nei nove anni precedenti di austerità Tory la forbice economica fra ricchi e poveri sia aumentata come in nessun altro Stato occidentale, che molti servizi pubblici siano allo stremo.
Conta Get Brexit Done, portare a casa la Brexit, farla finita in tempi brevi con una saga che ha esasperato, logorato, diviso, paralizzato il Paese per più di tre anni e mezzo. Sulle ragioni del trionfo personale di Boris si potrebbero scrivere trattati, ma preferiamo affidarci all’analisi definitiva di Lisa, parrucchiera gallese, che durante la campagna elettorale ha dichiarato alla BBC: “Boris mi piace perché è un bugiardo. Questo lo rende umano, e quindi credo che manterrà le sue promesse”.
A decidere un esito inatteso, l’ennesimo sviluppo imprevisto di una politica britannica italianizzata, è stata Brexit? Le molte maschere di Boris? La sua strategia elettorale? Gli errori di Jeremy Corbyn? Domande dalla risposta complessa e forse prematura, finché non saranno analizzati a fondo i dati del voto. Di sicuro, questo risultato ridisegna ogni scenario.
In primo luogo, Brexit si farà. Niente più rinvii o promesse di secondo referendum. Entro il 31 gennaio il Regno Unito uscirà dall’Unione europea con l’accordo raggiunto fra Londra e Bruxelles a metà ottobre: poi si entrerà nella fase dei negoziati per il cruciale accordo commerciale.
Le implicazioni geopolitiche ed economiche europee e mondiali sono tutte da capire: sul piano domestico, come da discorso della vittoria: “Con questo mandato e questa maggioranza saremo finalmente in grado di realizzare Brexit, perché questa elezione significa che ora Brexit è irrefutabile, irresistibile, incontestabile. E con rispetto dico al nostro stentoreo amico con il cappello blu con le dodici stelle [la bandiera europea]: basta così, è il momento di mettere un calzino nel tuo megafono e lasciarci tutti in pace”.
È la campana a morte per il partito trasversale del secondo referendum: un capitale politico che, sulla carta, avrebbe la maggioranza con oltre il 50% dei voti totali, ma non è riuscito ad allearsi per impedire la Brexit e ora viaggia in ordine sparso.
Poi c’è il disastroso risveglio del Labour, 203 voti, la caduta del Red Wall – come dire l’Emilia Romagna che passa alla Lega di Salvini. Anche qui, il fallimento del progetto Corbynista, quando ne saranno più chiare ragioni e implicazioni, merita un approfondimento a parte, ma va ricordato che Corbyn, fino al 2015, era un parlamentare totalmente marginale nel partito laburista; che è stato eletto sulla base del suo rigore ideologico e di una piattaforma socialista; che al partito ha portato il raddoppio degli iscritti e una formidabile macchina di mobilitazione come Momentum; che ha riportato il dibattito politico sul tema della giustizia sociale; che ha dovuto tenere insieme due anime inconciliabili , quella del centrosinistra urbano ed europeista e quella di ciò che resta della working class, già emarginata dal blairismo e ora pronta a dare una chance al progetto politico, alla rivoluzione populista promessa da Johnson.
Quello che emerge chiaramente dalla mappa del voto è il rafforzarsi del nazionalismo inglese che è la vera radice della Brexit e di cui aveva parlato a lungo il giornalista irlandese Fintan O’Toole. Un misto di nostalgia per l’impero, appetite for destruction punk, anti-europeismo simbolico e rabbia sociale nella quale si incontrano, in modalità ardue da spiegare a un pubblico italiano, figli dell’élite come Boris Johnson e il suo consigliere speciale Dominic Cummings e le infermiere, gli insegnanti, le parrucchiere delle Midlands.
Questo radicalizzarsi del nazionalismo inglese sembra la chiave di lettura di fenomeni politici centrifughi rispetto all’asse centrale che ha finora unito il Regno: ecco allora il crescere dell’indipendentismo scozzese, con il partito di Nicola Sturgeon che ottiene 48 dei 59 parlamentari e il DUP unionista per la prima volta sconfitto in Irlanda del Nord. Se il nuovo progetto di Londra è, come sembra, “prima gli Inglesi”, cede il collante ideologico dell’unità territoriale. E infatti si fanno più alte le rivendicazioni secessioniste, anche nel meno rilevante Galles, al grido di “Londra ci ha sempre trattato da cittadini di serie B”.
In Scozia la leader del SNP e Primo Ministro Nicola Sturgeon ha subito approfittato del nuovo capitale politico per accelerare sul secondo referendum per l’indipendenza dopo quello fallito nel 2014. Secondo i sondaggi non ha ancora i numeri per la vittoria, ma è possibile che una Brexit ormai inevitabile, con il prevedibile disastroso impatto economico su una regione che ha votato a maggioranza Remain, risulti in un cambiamento di orientamento dell’elettorato. Per ora, si alzano i toni dello scontro: Boris non vuole concedere il referendum, si andrà allo scontro legale. Quanto ai tempi, un conto è la propaganda un altro la realtà: ammesso che la Sturgeon ottenga un mandato politico dai suoi elettori, i costi dell’indipendenza e del conseguente ingresso nell’Unione europea e nell’euro potrebbero essere insostenibili.
Lo stesso vale per l’Irlanda del Nord, in cui la bandiera di un referendum per l’unificazione, previsto dal Good Friday Agreement, non è più solo una esclusiva del Sinn Fein.
Il DUP è uscito indebolito dalle elezioni, punito per l’intransigenza sulla backstop prevista dall’accordo fra Theresa May e Bruxelles, salvo trovarsi ora con il ritorno di un confine fisico con la madrepatria contenuto nel nuovo accordo firmato da Johnson. Ma anche qui, il realismo induce a valutazioni prudenti. Una unificazione sarebbe possibile solo con un voto a favore dei contadini della Repubblica Irlandese, e presuppone la disponibilità e possibilità di annettere una regione poverissima, che dipende da 10 miliardi di sterline di sovvenzioni statali l’anno, ora elargite da Londra. Per non parlare del peso politico di un’area ancora settaria, attraversata da tensioni politiche mai sopite. Una unificazione rischia di riportare in attività bande paramilitari filo unioniste.
Insomma, un Regno decisamente disunito sul piano politico e culturale, ma, questa la nostra previsione, ancora per molti anni integro suo malgrado sul piano territoriale.
Da questo punto di vista, Boris Johnson può dormire sonni tranquilli. La sua kriptonite è, semmai, l’impatto economico e politico della Brexit.
Johnson si è assicurato la caduta del Red Wall e la disfatta laburista promettendo la fine dell’austerity e un programma di spesa pubblica che farebbe piovere miliardi in zone mai risollevatesi dalla de-industralizzazione post Thatcheriana. Una scommessa intelligente non solo dal punto d vista elettorale, ma anche politico a lunga distanza: dare rappresentanza a voci anti-establishment e populiste cementa il suo potere personale e contemporaneamente assorbe e pone sotto il suo controllo spinte potenzialmente eversive.
Ma gli esperti prevedono che una Brexit dura, come quella che non sembra voler evitare, creerà una grave e duratura crisi economica nel Paese. E cresce il rischio che, per galleggiare post Brexit, il Governo britannico finisca per svendere asset strategici, come parti del suo servizio sanitario, al miglior offerente. La fine del Regno Unito potrebbe annidarsi lì.
@sabriprovenzani
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Gli Inglesi l’hanno incoronato per ribadire la loro volontà di uscire dall’Ue. Mezzo Regno gli è contro, inclusa Londra. Siamo alla vigilia di UKexit?
Erano “le elezioni più importanti di una generazione”, il “voto per l’anima del Paese”. Fino alla vigilia, tutti gli scenari sembravano possibili. È finita con Boris che incassa tutto: una maggioranza parlamentare di 80 seggi, la Brexit, la debacle epocale del Labour, una presa di lunga durata sul Partito Conservatore e sull’intero Paese. Perfino il rapido riposizionamento di tanta stampa, che di fronte alla vittoria si inchina all’uomo che fino a poco prima raccontava come clown, poi come Joker e oggi è un grande leader, forse perfino il Pericle da lui tanto ammirato. Non conta più che abbia mentito, che insulti avversari e minoranze, che il suo programma sia una riproposizione dello status quo in un pacchetto fiammante di promesse di soldi pubblici da prendere chissà dove, che nei nove anni precedenti di austerità Tory la forbice economica fra ricchi e poveri sia aumentata come in nessun altro Stato occidentale, che molti servizi pubblici siano allo stremo.