C’erano quasi 4.500 persone domenica alle pendici del Montello, zona collinare schiacciata tra le Prealpi venete e la Pianura padana. Qui, precisamente a Giavera, in provincia di Treviso, si è tenuta una marcia organizzata per affermare le posizioni di chi nei migranti non vede per forza una bomba ad orologeria. L’evento è stato ideato in risposta, «non in polemica» – assicurano gli organizzatori – alla discussa manifestazione avvenuta il 28 dicembre poco lontano, a Volpago del Montello. Durante la fiaccolata autorizzata tra Natale e Capodanno, era apparso uno striscione di dubbio gusto “benvenuti sul Montello, sarà il vostro inferno”, esposto in prima fila a due passi da vari esponenti politici locali, incluso il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia.
Seppur fallendo nel tentativo di trovare una rima, il messaggio non proprio natalizio era rimbalzato da un media all’altro, alimentando un fiume di polemiche. Nulla di nuovo nell’epoca dei Goro e Gorino, delle barricate contro i “profughi” e i “clandestini”, con la questione migranti inchiodata in testa alle agende di chi amministra il territorio, a tutti i livelli, dai piccoli comuni della countryside trevigiana, a Bruxelles. La marcia avvenuta domenica a Giavera rappresenta un caso tipo, utile ad intendere il problema da tutti i punti di vista, e a offrire un metro di misura valido sul dualismo di posizioni in materia. Del resto i cancelli sono aperti o chiusi, con tutte le sfumature del caso.
Tralasciando l’etica, il nocciolo della questione è senza dubbio la distribuzione dei migranti sul territorio. Per quanto strano possa sembrare, questo è forse l’unico punto di incontro tra chi ieri ha marciato alle pendici del Montello, e chi a Natale brandiva fiaccole accese per protestare conto i clandestini e l’accoglienza selvaggia. «Siamo solidali con gli abitanti del Montello sul fatto di non far vivere nelle vecchie caserme o in tendopoli la gente», ha commentato Stefano Donà, uno degli organizzatori della “marcia dei 1000 piedi” e coordinatore del Festival crocevia di incontri e culture, che nel 2016 ha attirato quasi 20mila persone a villa Wassermann di Giavera. «Non è giusto e condividiamo, anche se non è accettabile manifestare l’opposizione come poi è accaduto a fine dicembre, con toni simili».
Dello stesso avviso anche il presidente di Ritmi e danze nel mondo, don Bruno Baratto, intervenuto al termine della passeggiata, a palazzo Mazzalovo di Montebelluna dove si è tenuto un dibattito: «intendiamo dare voce a chi ha posizioni più aperte. Vogliamo sostenere il fatto che anche i migranti e i richiedenti asilo possono essere delle risorse». Secondo Baratto, incontrato da noi di East, il concetto di integrazione non ha ormai più senso. Bisogna forse parlare di «inserimento, in modo da rendere i migranti capaci di mettersi in relazione al territorio». I gruppi troppo numerosi rappresentano un limite importante, intimoriscono i cittadini, da cui il senso di insicurezza che sancisce il binomio “migranti vs minaccia”. «Per un’accoglienza efficace credo servano regole certe su cosa è chiesto a chi gestisce i richiedenti asilo», conclude Baratto, riferendo ai molti insuccessi dell’accoglienza in outsourcing. «Chi ospita deve conoscere i doveri, avere degli obbiettivi minimi ad esempio nell’insegnamento dell’italiano, nelle relazioni con il territorio, in termini di formazione al lavoro».
Una voce autorevole in materia di accoglienza è senza dubbio quella di Antonio Calò, professore di filosofia a Treviso che assieme alla moglie e ai quattro figli, ospita da 18 mesi a casa propria, sei migranti di provenienza africana. Scelta quasi estrema, difficile da replicare altrove, non solo per mancanza di spazi e tempo, ma per l’enorme forza di volontà richiesta da un approccio così impegnativo, valso al professore l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, assegnata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Antonio Calò, la moglie e i figli hanno adottato quello che definiscono modello di convivenza costruttiva. «Integrazione ha una valenza utopica, spesso strumentale. Mentre il concetto di convivenza costruttiva origina la capacità di rendersi conto che si può convivere pur essendo diversi. Certo, la diversità esiste. Sono io il primo a dirlo, non c’è da nascondersi, ma se vista nel modo giusto diventa un’opportunità di mettersi in discussione». Il passo compiuto dalla famiglia Calò non scaturisce da una reazione emotiva al dramma dei migranti, ma rientra in un percorso di conoscenza e informazione senza il quale ha poco senso schierarsi, soprattutto se le posizioni scelte sono quelle viste alla fiaccolata di Natale. «Alle persone di Volpago dico una cosa molto semplice. Primo, rispetto il loro punto di vista, bisogna avere coraggio di rispettare la cultura diversa. Le invito però a studiare, a capire perché si fugge e da cosa. È ovvio che lo studio implica del tempo, e questa società ne ha poco, ma solo così riusciremo a capire chi realmente arriva. Informarsi costa, perché chi studia non può dire alla propria coscienza “non so”, non si può fingere di ignorare quanto sta avvenendo».
La mobilità è una forza della natura, e questa forza è inarrestabile. È il concetto che l’attore e regista Marco Paolini prende in prestito da Steve Jobs, intervenendo in chiusura al Mazzalovo. «Il “no” è la prima parola che un bambino impara a dire. Le storie di questi anni iniziano con un “no”, come la Val di Susa, come il Dal Molin o il referendum». Per comprendere il concetto della mobilità umana non serve andare molto lontano. Secondo l’artista bellunese è sufficiente osservare le Dolomiti. Un luogo unico, bellissimo, patrimonio dell’Unesco, ma difficile da abitare, anche oggi, al punto da imporre a molti di andare altrove, alla ricerca di nuove opportunità. «In nome di quelle opportunità sono disposto a qualsiasi cosa, perché non sto giocando solo per me. Sto giocando per mio figlio, per mio nipote, per il futuro. Dunque ci sono delle cose (certe) su questo pianeta … e una di queste è la mobilità, a cui è ipocrita dire no».
Calato il sipario sulla marcia di Giavera, non ci resta che la fredda realtà dei numeri. Dal primo gennaio ad oggi, in Italia sono sbarcati quasi 2.400 migranti, in gran parte salpati dalla costa libica. Valore in linea agli arrivi registrati nello stesso periodo dello 2016 (5.200 a gennaio), a dimostrazione di come la necessità di mettere ordine all’accoglienza sia quanto mai attuale. In questo contesto, viene ad inserirsi il nuovo pacchetto immigrazione annunciato dal ministro dell’Interno, Marco Minniti il 18 gennaio. Anche a seguito delle segnalazioni giunte da mezza Penisola, i migranti ai quali è stato riconosciuto lo status di rifugiati, o in attesa di ottenerlo, potranno essere impiegati nei lavori socialmente utili, oppure, seguendo il modello tedesco, come stagisti all’interno di aziende. «L’obiettivo è quello di garantire accoglienza a chiunque sia in possesso dei requisiti necessari ed essere inflessibili con chi questi requisiti non li ha», ha dichiarato il capo del Viminale.
I migranti verranno dotati di un documento attestante le generalità dichiarate, usato poi per accedere al circuito dei lavori socialmente utili. La disponibilità a svolgere attività lavorative sarà un elemento centrale per ottenere lo status di rifugiato. In contemporanea, il pacchetto migranti prevede la riapertura dei nuovi Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie), rinominati Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr). Si tratta di veri e propri hub creati fuori città, nei pressi di nodi di interscambio, soprattutto aeroporti. Il progetto prevede aperture in ogni regione. All’interno dei Cpr avrà luogo l’identificazione dei migranti e la pianificazione dell’eventuale rimpatrio, il tutto alla presenza di un ufficiale incaricato di garantire il rispetto dei diritti dei migranti.








