Nel 2007, alla vigilia della crisi, la quota di mercato dell’export italiano era del 3,6 per cento. Adesso è del 2,9 per cento. Le principali destinazione dei nostri prodotti sono ancora quelle tradizionali: Germania, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna. L’Asia è piuttosto indietro e la Cina è solo al nono posto. Eppure il combinato disposto di tendenze protezionistiche in Occidente, Brexit, presidenza Trump e crisi profonda della prospettiva europea impone una domanda: come uscire dall’impasse? Dove cercare nuovi e più promettenti mercati?
Pivot to Asia, si potrebbe rispondere, mutuando un’espressione che, in ambito geopolitico, non ha portato troppa fortuna alla sua creatrice, Hillary Clinton. L’Oriente e il Pacifico sembrano essere la risposta naturale ai rigurgiti protezionistici dell’Occidente che fu liberale. Devono averlo pensato anche gli organizzatori degli Italian Innovation Days, che si aprono oggi – e si chiudono domani – a Singapore. Il progetto, coordinato dal Ministero degli Esteri, è promosso congiuntamente da Agenzia Ita/Ice, Camera di Commercio Italiana a Singapore, Cnr, Confindustria Sistemi Innovativi, Enel, Unioncamere, Unioncamere Lazio, Unindustria, ed è realizzato con la collaborazione della Singapore International Chamber of Commerce, della Singapore Business Federation e della Singapore Manufacturer Association.
L’iniziativa ha l’obiettivo di promuovere i rapporti industriali, commerciali, finanziari e di ricerca tra l’Italia, la Cina ed il sud-est asiatico, favorendo l’attrazione di capitali attraverso l’incontro diretto con i fondi sovrani, quelli di venture capital e di private equity, oltre che con aziende interessate ad investimenti nel mercato italiano. Da Singapore potrebbero scaturire accordi commerciali o partnership industriali con aziende asiatiche, intese con centri di ricerca o acceleratori per lo sviluppo di azioni comuni sui mercati continentali. Le imprese italiane partecipanti possono presentare progetti di innovazione – di prodotto o di processo – e approfondire l’interesse delle controparti con incontri riservati.
Perché proprio Singapore? Perché l’ex colonia britannica, oltre ad essersi avvantaggiata delle situazioni difficili di alcuni Paesi limitrofi, come le tensioni politiche a Hong Kong, possiede tutta una serie di caratteristiche che la rendono un ambiente ideale per gli investimenti, ma le sue potenzialità per il sistema Italia sono ancora inespresse. Singapore è un hub economico-finanziario per tutto il sud-est asiatico. E’ un centro di avanguardia per l’innovazione. E’ un polo logistico e legale, sede di arbitrati internazionali. I brevetti sono tutelati, a tal punto che, secondo l’Economic Forum, risulta il secondo Paese al mondo per la difesa della proprietà intellettuale.
Una caratteristica di Singapore è piuttosto nota anche da noi: è un Paese molto ricco (ha il Prodotto Interno Lordo della Danimarca, ma in 60 chilometri quadrati, e possiede il terzo Pil pro capite al mondo, dopo Qatar e Lussemburgo), anche se la crescita, intorno all’1,5/2 per cento, non è più da tigre asiatica. Una situazione che, paradossalmente, favorisce maggiore tranquillità imprenditoriale.
Il livello di corruzione è bassissimo e nella graduatoria per fare business della Banca Mondiale la città Stato figura al primo posto. Tempo fa si è puntato molto sulla logistica, poi è stato il turno dell’elettronica, della finanza e dell’immobiliare. Adesso c’è un grande interesse per lo sviluppo del turismo, con la costruzione di resort e casino (e l’inserimento nel circuito della Formula Uno, ottimo veicolo di immagine). Ma è nel campo dell’innovazione che si trovano le maggiori potenzialità d’impresa.
L’Unione Europea è il terzo partner commerciale, davanti a Stati Uniti ed Indonesia, ma dietro a Malesia e Cina, nonché un grande investitore diretto. L’Italia, però, nella graduatoria degli investimenti, è molto bassa, il che indicherebbe possibili spazi di azione. Il 16 dicembre Singapore e la UE hanno concluso i negoziati per un accordo di libero scambio, che tuttavia non è ancora entrato in vigore. Un’intesa importante non tanto per la questione dei dazi – che riguardano adesso solo pochi prodotti, tra cui alcolici, tabacchi e automobili – quanto per il riconoscimento diretto relativo ad alcune certificazioni.
La città-Stato si propone come una opportunità per le aziende straniere, comprese quelle italiane. Dove? In primo luogo, nel settore delle costruzioni (si calcola che il 46 per cento della spesa in questo campo, nel 2020, sarà in Asia). Singapore è strategico, anche perché ospita il quartier generale di molti studi di architetti, designer, ingegneri. Un altro ambito in espansione è quello marittimo: il governo sta investendo 150 milioni per dollari in tre anni allo scopo di sviluppare la cantieristica navale.
Il Paese, come il resto dell’Asia, soffre per l’invecchiamento della popolazione. La spesa ospedaliera governativa è in forte aumento e l’esecutivo è intervenuto per aumentare i posti letto negli ospedali. Qui le opportunità sono per le aziende del bio tech, che intendono sviluppare prodotti per il mercato locale e per il resto del continente, anche con fondi governativi.
Singapore, infatti, è il centro principale in Asia per la produzione farmaceutica. Il continente sta invecchiando e gli asiatici hanno bisogno di un numero sempre più; grande di farmaci, spesso diversi, a causa delle differenti conformazioni fisiche, da quelli usati in Occidente. Anche il turismo medicale sceglie come destinazione la città-Stato, soprattutto i pazienti provenienti dal Medio Oriente. A Singapore, però, si va soprattutto per lo shopping, di lusso, ma non solo.
Le conclusioni sono facili da tirare: in un microcosmo così avanzato, dove la penetrazione degli smartphone è al 97 per cento e l’e-commerce diffusissimo, le opportunità; per il sistema-Italia sono notevoli. A patto che si ragioni, finalmente, come un sistema.
Nel 2007, alla vigilia della crisi, la quota di mercato dell’export italiano era del 3,6 per cento. Adesso è del 2,9 per cento. Le principali destinazione dei nostri prodotti sono ancora quelle tradizionali: Germania, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna. L’Asia è piuttosto indietro e la Cina è solo al nono posto. Eppure il combinato disposto di tendenze protezionistiche in Occidente, Brexit, presidenza Trump e crisi profonda della prospettiva europea impone una domanda: come uscire dall’impasse? Dove cercare nuovi e più promettenti mercati?