L’apertura a una nuova unione doganale è una mossa politica da maestro. Il leader laburista guadagna credibilità sia a Bruxelles che – impensabile – tra gli imprenditori britannici. E si rafforza come alternativa alla May. Senza rinunciare in nulla al suo radicalismo
All’ultimo question time, mercoledì scorso, Jeremy Corbyn ha avuto vita facile nell’attaccare una Theresa May assediata da ogni lato su Brexit, la bestia nera di un premierato nato proprio dal referendum del 23 giugno 2016, ormai 20 mesi fa.
Il contesto: al mattino i negoziatori europei avevano reso nota la posizione dell’Ue sul dilemma irlandese: come conciliare l’uscita dell’Ulster, appendice britannica in terra d’Irlanda, con gli accordi di pace del Good Friday che nel 1998 hanno posto fine a un trentennio di guerra civile fra repubblicani e unionisti?
Uno dei grandi successi di quel difficile processo di pace è, infatti, il cosiddetto confine invisibile fra le due Irlande: 300 km di frontiera, un tempo punteggiata da filo spinato e pattuglie dell’esercito britannico e ora riconoscibile solo dal cambio di unità di misura, da miglia a chilometri e viceversa.
Bruxelles propone il mantenimento di una “area regolatoria comune” fra le due Irlande – cioè l’equivalente di una unione doganale, sotto la supervisione della Corte di Giustizia Europea – se non si trova una soluzione alternativa.
Theresa May ha rigettato la proposta come inaccettabile, perché sottoporrebbe l’Irlanda del Nord a un regime diverso da quello da lei prospettato per il Regno Unito post-Brexit: fuori dal mercato unico e dall’unione doganale.
«Nessun primo ministro britannico potrà mai accettarlo» ha detto. Soprattutto, non può accettarlo un Primo Ministro la cui maggioranza parlamentare è tenuta in piedi dalla precaria alleanza con i 10 parlamentari del Dup, il partito degli unionisti irlandesi, strenui sostenitori di Brexit.
Ora che è chiaro cosa il governo inglese non può accettare, resta da capire cosa propone. La May ha parlato di «ambitious managed divergence» – ambiziosa divergenza controllata – ed è stato allora che il sornione Corbyn ha colpito, chiedendole in diretta televisiva alla Camera dei Comuni: «Può spiegare cosa diavolo significhi in pratica?».
Non è la prima volta, naturalmente, che il leader del Labour approfitta del Question time per attaccare la ondivaga strategia del Primo Ministro su Brexit. Ma ora Corbyn ha un’arma in più: lunedì ha cambiato direzione, è uscito da mesi di ambiguità e ha finalmente dichiarato che il suo partito appoggia «l’opzione di una nuova unione doganale con l’Unione europea».
Due i vantaggi evidenti: il primo è, appunto, evitare il ritorno del confine fra le due Irlande. Il secondo è proteggere le imprese, i lavoratori e l’economia britannica dai «danni duraturi ai posti di lavoro, ai diritti e agli standard di vita» minacciati dalla Brexit versione May.
L’euroscettico Corbyn si è convertito a una improvvisa eurofilia? Niente affatto. A Jez – come viene chiamato – vanno riconosciute due grandi virtù.
La prima virtù è la coerenza, temprata nei decenni da outsider nel Labour di Blair: non ha mai cambiato idea, in cinquant’anni. È stata piuttosto la politica britannica a fare un giro quasi completo. Considera l’Unione Europea un mostro burocratico e liberista e si è guardato bene dall’invocare il mantenimento del libero mercato – la versione completa del matrimonio con l’Ue – perché le direttive sulla libera concorrenza ostacolerebbero le nazionalizzazioni e gli aiuti di Stato su cui fonda il suo programma. Ha esitato ad esporsi sia per riluttanza personale sia perché una porzione consistente del suo elettorato si sentirebbe tradita dall’appoggio alla causa di una Brexit annacquata e lui deve tenerne conto. E infatti molti analisti fanno notare come l’annuncio sia più di facciata che di sostanza. È corredato da molti caveat e dall’idea che, comunque, qualsiasi accordo debba essere bespoke, su misura. Bespoke, la stessa pretesa del governo May, già respinta più volte, con crescente irritazione, dai negoziatori europei.
E quindi, il vero scopo è isolare il governo.
Perché la seconda virtù di Corbyn è la pazienza, in politica anche detta: va sulla riva del fiume e aspetta che passi il cadavere dei tuo nemico. Il cadavere di Theresa May dovrebbe passare presto e intanto Corbyn prepara con prudenza la lunga marcia verso Downing Street.
Quali gli effetti politici dell’annuncio? Ne abbiamo individuati tre.
Il primo è puro paradosso, come ha notato anche il Financial Times. Con la sua mossa il socialista Corbyn si è conquistato l’approvazione pubblica delle maggiori associazioni degli industriali e dei datori di lavoro, naturalmente portati da una generale comunanza di interessi a sostenere il Partito Conservatore ma esasperati da mesi di contatti infruttuosi con l’esecutivo.
Il secondo è il piano dei negoziati con Bruxelles: il dialogo è aperto e fitto da tempo e Corbyn ha gioco facile nel presentarsi come più ragionevole della May, tirata per la giacca dalle correnti più radicali del suo partito. Si prepara, dunque, ad essere un interlocutore credibile sulla scena politica internazionale.
Infine, mesi di ambiguità hanno portato alla creazione e al rafforzamento di gruppi organizzati di Remainers, i cui sforzi per sovvertire o minimizzare gli effetti del referendum finiscono per rafforzare Corbyn come unico leader alternativo alla May.
In Parlamento, questo sforzo è culminato nella stesura, da parte di un gruppo di deputati conservatori, di un emendamento alla legge sul commercio che prevede la permanenza nell’unione doganale. Potrebbe votarlo un’alleanza traversale di ribelli Tories, laburisti, lib-dem e indipendentisti scozzesi. Scenario ipotetico ma non troppo: il governo è sconfitto, va in crisi, la May si dimette, si va a elezioni e vince il Labour. Il socialista Corbyn entra a Downing Street, per l’orrore della City.
La strategia di Jez verrà verificata presto, già alle elezioni locali di maggio per il rinnovo dei municipi. È un test di portata relativa, perché molti dei Council da rinnovare sono roccaforti Labour. Ma c’è anche qualche amministrazione tradizionalmente conservatrice, come Westminster: espugnarla sarebbe una bella vittoria simbolica.
Queste consultazioni sono anche un test per un’altra tela fondamentale, che il paziente Corbyn ha tessuto dal giorno della sua elezione a segretario del Labour, quando ha iniziato a espugnare il partito dall’interno, spostandolo a sinistra ed eliminando i moderati neoblairiani. Al loro posto, sono subentrati i giovani e radicali membri di Momentum, nato nel 2015 come movimento a sostengo della sua campagna elettorale e trasformatosi in una efficacissima gioiosa macchina da guerra personale (31mila membri, 200mila sostenitori, 170 sedi locali, il tutto retto da donazioni). In pochi anni, esponenti di Momentum hanno preso il controllo di molti gangli vitali del Labour, compreso il potente Nec, il comitato esecutivo nazionale.
Se Corbyn davvero dovesse mai diventare Primo Ministro, il suo sarebbe uno dei governi più radicalmente di sinistra visti in Europa da decenni.
Proprio l’altroieri, il solito Financial Times dedicava un pezzo ai ricconi che corrono a chiedere la residenza nel paradiso offshore di Jersey. Titolo: “Le case a Jersey offrono un riparo da Corbyn. I possibili compratori vedono l’isola come una via di fuga da Brexit e da un possibile governo laburista”.
@permorgana
L’apertura a una nuova unione doganale è una mossa politica da maestro. Il leader laburista guadagna credibilità sia a Bruxelles che – impensabile – tra gli imprenditori britannici. E si rafforza come alternativa alla May. Senza rinunciare in nulla al suo radicalismo