Matteo Miavaldi, qualche giorno fa, ha ricostruito gli eventi di domenica scorsa in cui un commando di quattro uomini ha fatto irruzione in una base dell’esercito indiano ad Uri, in Kashmir, infliggendo 20 perdite tra le file dei soldati.
Le ultime indagini hanno rivelato che i 4 membri di Jaish-e-Mohammed – organizzazione terroristica a cui è stato attribuito l’attentato, sebbene non sia ancora stato rivendicato ufficialmente – hanno probabilmente ricevuto aiuto dall’interno: erano a conoscenza dei punti chiave della base, della residenza del comandante di brigata e degli spostamenti delle truppe.
Mentre il mondo guardava con ansia allo sviluppo della situazione, temendo un’escalation di violenza tra le due potenze nucleari, come sono andate queste giornate in Kashmir dopo l’attacco? Come sono state vissute dalla popolazione della valle che si avvicina al terzo mese dalla morte di Burhan Wani, la scintilla che ha dato inizio all’insurrezione tutt’ora in corso?
La più immediata conseguenza è stata una forte reticenza a scendere in strada ed ingaggiare le forze dell’ordine. I giovani lanciatori di pietre, infatti, erano piuttosto intimoriti dalle rappresaglie da parte dell’irato esercito indiano ed hanno così preferito non provocarli. Domenica a Srinagar, e in tutto il resto della valle, regnava un’inusuale tranquillità. Un medico dell’ospedale SMHS, dove la maggior parte dei feriti è stata ricoverata durante questi mesi, domenica ha ricevuto soltanto 5 feriti da pellet, pietre o lacrimogeni.
Le parole di Geelani, l’unico leader separatista che sembra avere un qualche ruolo di rilievo negli ultimi tempi, ha avuto parole conciliatorie riguardo l’accaduto:
“La perdita di vite umane è una seria preoccupazione per ogni nobile anima, e non c’è altra possibilità se non rendere omaggio ad esse. In quanto esseri umani, crediamo nella promozione di una fratellanza universale. Siamo, quindi, addolorati per le vittime di Uri. Non traiamo alcun piacere dalla sofferenza altrui”.
Senza però evitare di contestualizzare l’evento all’interno della grave situazione che il Kashmir sta affrontando:
“Siamo fermamente convinti che il sangue degli essere umani, di chiunque, sia sacro ma la domanda sorge spontanea: perché due pesi e due misure?
Chiediamo a tutti quelli che piangono i soldati di Uri per quale motivo pensano che il sangue dei nostri giovani non abbia valore”.
La tempistica dell’evento ha fatto insospettire molti. Come Mushtaq, venditore di spiedini a Srinagar, che si chiede: “perché questi attacchi arrivano sempre quando India e Pakistan dovrebbero sedersi intorno ad un tavolo per discutere una soluzione per il Kashmir?”.
Ogni kashmiro non esita a sottolineare la strana coincidenza dei fatti di Uri proprio pochi giorni prima dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la quale il premier Pakistano Nawaz Sharif aveva promesso una durissima denuncia delle violazioni dei diritti umani nel Kashmir sotto l’amministrazione indiana e l’ennesima richiesta di intervento da parte dell’ONU.
L’opinione comune è che circostanze di questo tipo vengano usate – o siano organizzate ad hoc – per screditare la popolazione del Kashmir e le sue rivendicazioni politiche. Lo stesso Geelani ha dichiarato come dinamiche del genere non siano affatto nuove, riferendosi al massacro di 36 membri della comunità Sikh in Kashmir durante la visita di Bill Clinton nel 2000, per organizzato per etichettare la questione kashmiri come violenza interreligiosa.
La frustrazione si sta facendo largo tra gli abitanti della valle. In molti speravano fosse imminente un incontro tra India e Pakistan dal quale sarebbe emerso qualche risultato per il Kashmir, ma gli eventi recenti hanno chiaramente allontanato la possibilità di un dialogo risolutivo riguardo la questione.
Intanto sui social network il patriottismo indiano si è mobilitato arrivando a giustificare le brutalità degli ultimi mesi da parte delle forze dell’ordine con centinaia di messaggi. Come Sandeep Naik che scrive: “tutti i kashmiri che supportano il separatismo si meritano i pellet e dovrebbero essere uccisi”, in risposta ad un kashmiri che aveva espresso il proprio shock di fronte alla diversa copertura mediatica indiana dell’uccisione dei soldati rispetto a quella dei civili kashmiri.
Per quanto possano essere considerate poco rilevanti, tali parole dimostrano come l’attacco di Uri non farà altro che esacerbare gli animi di tutti e tre i fronti coinvolti.