KASHMIR – Qualche mese fa Dinesh Tiwari, un ex ufficiale dell’esercito indiano, ha diffuso una toccante, e allo stesso tempo cinica, lettera in cui esprime i suoi sentimenti in conflitto con il dovere di soldato impegnato in Kashmir.
Per comprendere meglio i riferimenti, si consiglia la lettura di questo articolo riguardo la guerriglia degli anni ’90 e l’insurrezione di quest’estate scoppiata dopo l’uccisione di Burhan Wani. E ricordiamo che la presenza di 700-800mila truppe indiane rende la valle uno dei luoghi più militarizzati al mondo.
«Sono stato in Kashmir, ma non da turista. Ci ho vissuto, ci ho lavorato, ero parte di quello strumento militare indiano in paradiso (un poeta persiano descrisse nel 1600 il Kashmir come “un paradiso in terra” per via dei suoi splendidi paesaggi, N.d.A.) che fa la guardia agli abitanti stessi di quel luogo. E a qualche irrequieto, problematico vicino.
Ero un ventunenne e, con la forza di uno dei più grandi eserciti al mondo a coprirmi le spalle, un AK-47 tra le mani, ho girato le città e i villaggi con l’autorità che nessuno dei Burhan Wani o Bhat o Wazir o Bhan o Wattal (cognomi tipici del Kashmir, N.d.A.), o chiunque altro la cui terra apparteneva, si sognerebbe di avere.
Paradossalmente, come cittadino del Nepal arruolato nell’esercito indiano, ero un insieme di contraddizioni.
Quando guidai un gruppo di uomini in una zona tesa, non potei non rivivere le sensazioni della mia adolescenza in Nepal, quando ero infuriato e frustrato per il coprifuoco imposto nella mia città natale dalle 6 della sera alle 6 della mattina, ogni giorno, per anni.
Quando l’insurrezione maoista era al suo picco, ero un adolescente. Sono stato perquisito, violato, insultato; costretto a fare flessioni solo perché ad un posto di blocco avevo chiesto ad un poliziotto di ripetere gli ordini che non ero riuscito a sentire bene.
Le ispezioni nelle nostre case erano regolari – da parte di poliziotti in uniforme, poliziotti non in uniforme; anche da sconosciuti con armi nascoste sotto lo scialle, giusto per farle vedere e incutere timore, che chiedevano cibo, rifugio e soldi.
Ero arrabbiato, molto arrabbiato.
Ero arrabbiato con i poliziotti che mi perquisivano, trascinavano per un braccio, gettavano la mia borsa in terra disperdendo tutte le mie cose e che una volta mi appoggiarono dietro il collo un oggetto appuntito. Non era un bastone. Era freddo e pesante. Non lo vidi, ma un brivido mi attraversò la schiena.
La mia rabbia esplose. Ero arrabbiato con il governo, con lo stato che aveva ignorato così tante persone per così tanti anni tanto che questi erano pronti ormai a combattere, uccidere e morire.
Inoltre ero infuriato con me stesso. Senza sapere il motivo, senza un bersaglio, la rabbia stava crescendo in me e mi travolgeva.
Ero fortunato. Avevo la possibilità di fuggire. E lo feci al momento giusto.
Poi, un bellissimo bambino kashmiri mi si avvicinò con innocente ammirazione e una genuina domanda: “devi essere kashmiri, sei del Kashmir?” Farfugliai una risposta.
Mi sarebbe piaciuto dirgli: “Sì, lo sono. Sì, siamo tutti kashmiri. Siamo tutti abitanti del paradiso. Siamo qui per voi. Siamo i vostri uomini”.
Avrei voluto sorridergli, pizzicargli le guance, arruffargli un po’ i capelli e dire: “Sì, sono kashmiri e io amo te e il Kashmir”.
Ma non lo feci. Perché non era vero. Io non amavo il Kashmir. E non amavo quel bambino. Non ero kashmiri. E non ero un turista.
Il Kashmir per me era un dovere. Un incarico, un compito arduo da adempiere con tutte le mie capacità e, soprattutto, a cui sopravvivere. Non ho messo in valigia una macchina fotografica, un paio di romanzi d’amore e libri di poesia (per secoli la valle è stata patria e ispirazione per numerosi poeti, N.d.A.) prima di entrare nel paradiso.
Sono stato addestrato per uccidere, e armato per questo. La mia letteratura era insanguinata. Come preparazione, non ero stato educato alla bellezza della terra ma ai contorni del terrore che prevalgono su quel paesaggio.
Non sono stato allietato da racconti di romaniche unioni su sfondi scenici, ma ho studiato centinaia di casi di sanguinosi e fatali scontri nella zona.
Per me il Kashmir non era da apprezzare ma da valutare, da stimare, per poi agire e sopravvivere.
Per me l’innocente bambino non era così innocente.
Le immagini dei bambini che portano messaggi, provviste, o anche armi, come avevo letto nei rapporti, immediatamente mi assalirono i pensieri.
Anche prima di notare i suoi bellissimi occhi azzurri scintillanti, le guance rosse come mele, e un sorriso adorabile, dovetti scrutare tutto il suo corpo per capire cosa nascondesse.
Le immagini di bambini che si fanno esplodere di fronte alle forze di sicurezza, mi apparirono ancora prima che io potessi comprendere le emozioni nella sua voce.
Ancora prima che io potessi pensare di tendere la mano per arruffargli i capelli, la presa sull’AK-47 si fece più forte e il mio dito sul grilletto all’erta.
No, mio caro, non sono un kashmiri. Non potrei esserlo. Non era previsto che lo fossi.
Perciò, non sono stato educato per esserlo. Non sono stato addestrato per esserlo.
E non amo né te né il tuo kashmir. Non potrei. Non era previsto che lo facessi. Non sono stato educato per farlo. Non sono stato addestrato per farlo.
Stavo farfugliando una risposta. E, alla fine, non dissi nulla.
La madre del bambino arrivò correndo, lo sollevò e lo trascinò via in fretta, senza neanche guardarmi.
Oggi, dovrebbe avere l’età di Burhan. E ancora non lo amo. E questa è una delle ragioni per le quali il Kashmir brucia.»
[3] Per secoli la valle è stata patria e ispirazione per numerosi poeti.