Mehbooba Mufti, Chief Minister del Jammu and Kashmir, ha deciso di adottare una strategia politica poco comprensibile agli occhi della popolazione della valle.
Durante una conferenza stampa, in cui è apparsa visibilmente irritata dalle domande dei giornalisti, ha dipinto un quadro dell’attuale situazione in cui solo un insoddisfatto 5% della popolazione in Kashmir sarebbe responsabile per i disordini dell’ultimo mese; il restante 95% sarebbe invece composto da persone che vogliono la pace e che vorrebbero aprire i loro negozi, mandare i propri figli a scuola e vivere tranquillamente. Proseguendo con: “non è accettabile che una minoranza così esigua sottoponga a tali sofferenze la maggioranza”.
“Nel 2008 e nel 2010 (due annate di fortissime proteste, nda) l’insurrezione in Kashmir era causata da diverse ragioni, ma non riesco a capire cosa sia successo stavolta”, aggiungendo: “Tre ribelli uccisi in uno scontro a fuoco con l’esercito, cosa c’è di unico e inedito in tutto ciò?”
Si fa qui riferimento a Burhan Wani, comandante del gruppo armato Hizbul Mujahideen, ucciso l’8 luglio a Kokernag insieme ad altri due ribelli. Questa è stata la miccia che ha fatto esplodere fortissime proteste ancora in corso e causato 70 vittime e intorno ai 7000 feriti.
Per quanto sia innegabile che nella volatilità delle attuali circostanze, specialmente nel sud, dove la situazione appare decisamente fuori controllo, si siano insinuate pressioni interne ed esterne, è lampante come il significato dell’azione popolare non si esaurisca solo nella celebrazione e vendetta del martirio di Burhan, bensì attinga ad un risentimento nei confronti dell’amministrazione indiana profondo, radicato, genuino e soprattutto estremamente diffuso.
Mehbooba nel 2010, quando il suo partito era all’opposizione, si era distinta, e probabilmente aveva aumentato considerevolmente il suo elettorato, scagliandosi contro l’allora Chief Minister, Omar Abdullah, e la sua incapacità di fermare il circolo vizioso di violenze che quell’estate portò la morte di 120 civili per mano delle forze dell’ordine. Accusandolo di voler muovere guerra contro la sua stessa popolazione, stava rivestendo lo stesso ed identico ruolo ricoperto da Abdullah in questi mesi. E’ tutto parte della politica, certo, ma travisare la realtà nella maniera in cui si è cimentata Mehbooba Mufti difficilmente potrà giovare al suo futuro. E i primi segnali sono arrivati immediatamente quando, durante un corteo il 27 agosto, è apparso un fantoccio vestito come la Chief Minister, preso di mira dagli insulti e infine dato alle fiamme e calpestato.
La dichiarazione arriva dopo che qualche giorno prima il generale dell’esercito indiano D. S. Hooda di fronte alle telecamere aveva preso una forte posizione, segnalando l’urgente necessità di una soluzione: “sono ormai 40 giorni e tutti stanno soffrendo per via delle sassaiole e degli scontri. Impiegati statali, alunni delle scuole, commercianti, insegnanti, e anche la polizia e l’esercito”. Facendo appello inoltre ai leader separatisti e a tutti i politici locali di unire le forze per riportare la situazione alla normalità.
Omar Abdullah, segretario della National Conference – principale partito all’opposizione – ha salutato con favore le parole del generale, definendo però vergognoso che tali asserzioni arrivino dall’esercito e non dai politici del governo centrale a Delhi.
Mehbooba Mufti, Chief Minister del Jammu and Kashmir, ha deciso di adottare una strategia politica poco comprensibile agli occhi della popolazione della valle.