L’alba di una nuova Era
È il 150° dell’Era Meiji, una fase storica che cambiò radicalmente il Paese. La ricorrenza è significativa perché nel 2019 Akihito dovrebbe abdicare.
È il 150° dell’Era Meiji, una fase storica che cambiò radicalmente il Paese. La ricorrenza è significativa perché nel 2019 Akihito dovrebbe abdicare.
Tra le date che vale la pena di ricordare quest’anno vi è il 150° anniversario della Restaurazione Meiji. Insieme ai drammatici eventi della Seconda Guerra mondiale, l’Era Meiji è una delle tappe storiche cruciali per comprendere come la comunità nipponica sia cambiata nella storia con l’apertura al mondo, la riforma delle istituzioni e le nuove prospettive economiche. Nell’immaginario comune, il Giappone è il luogo dove si è realizzata una sintonia armonica tra le forze contrastanti della modernità, che hanno dato luogo alle grandi contraddizioni ancora presenti nelle società occidentali. Tensioni mai completamente risolte come quelle fra riforma e immobilismo del potere, apertura all’esterno e difesa dell’identità nazionale, progresso e rispetto della tradizione. Proprio per questi parallelismi con altre nazioni a noi vicine, dovremmo leggere l’Era Meiji senza perder di vista i suoi esiti sorprendenti e l’esempio della leadership politica che ha traghettato il paese verso un brillante avvenire. Un riferimento che ancora oggi potrebbe esser utile al Giappone dinnanzi alle sfide di questo secolo.
Se la strategia dell’odierno Giappone è quella di un ritorno all’Asia, nel 1868 la priorità dell’Era Meiji fu idealmente quella di “unirsi all’Europa.” Quest’espressione di Alex Kerr (Yale University), rappresenta tutta la radicalità e il coraggio delle politiche del 122° imperatore che regnò sul Giappone 150 anni fa. Nonostante la distanza geografica e i cambiamenti in atto in altri paesi dell’area Pacifica, dai tempi dell’Era Meiji il Giappone è il più occidentale tra tutti i paesi asiatici. Questo apparente paradosso – almeno dal punto di vista della geografia – è in realtà il risultato più evidente della trasformazione storica che il Giappone si appresta a celebrare.
La svolta di metà Ottocento ha dato origine a condizioni inedite di stabilità e progresso dovute a nuovi obiettivi di modernizzazione e liberalizzazione, oltre all’emergere di modelli sociali sempre più egualitari. Il rinnovamento fu tale che si parlò dell’Era Meiji come dell’illuminismo giapponese, quando l’arcipelago nipponico bruciò le tappe dei lunghissimi processi di sviluppo politico e sociale, crescita economica e innovazione tecnologica, che erano lentamente avvenuti in Europa nel corso dei secoli. Anche per questo motivo, l’espressione giapponese Meiji Ishin è spesso tradotta come Rivoluzione e non solo come Restaurazione. Difatti, fu una rivoluzione liberale in pieno stile, con tanto di carta costituzionale: il Giuramento dei cinque articoli, che riorganizzò il potere delle élite e le libertà politiche dei cittadini. La grande conquista dell’Era Meiji non fu quindi solo l’apertura al commercio e all’innovazione, ma anche l’apertura ai diritti. Tanti fattori che spiegano come l’Era Meiji abbia sospinto il paese del sol levante molto vicino alla visione politica dell’occidente, con una sola eccezione: l’imperatore. In quella fase, l’Imperatore fu l’unico protagonista indiscusso, elemento di continuità ed al contempo di rottura, colui il quale trovò sempre la forza di spingere il paese oltre i suoi limiti nei momenti di incertezza e paralisi. Una responsabilità che non spetta più all’imperatore, che oggi ricopre una funzione puramente simbolica e tuttavia è ancora il punto di riferimento della nazione.
La famiglia imperiale del Trono del crisantemo è la più antica monarchia ereditaria al mondo, il suo è l’unico regno ininterrotto da più di 2500 anni. Un tempo lunghissimo che ha imposto cambiamenti senza precedenti, come quello introdotto dall’imperatore Hirohito, che nel secondo dopoguerra ha agevolato il processo di democratizzazione rinunciando alla divinità del suo potere e ha unito intorno a sé un paese sconfitto e sotto occupazione. Akihito invece, cioè l’attuale imperatore, ha lavorato per la riconciliazione con le vittime della guerra e la pace con gli altri paesi coinvolti nel conflitto. Non a caso il suo regno verrà ricordato come Heisei, cioè “il tempo della pace”. Data la sua età, 84 anni, Akihito ha già annunciato che abdicherà nel 2019 e sarà la prima volta per la casa imperiale dopo due secoli. Presto ci sarà quindi un nuovo imperatore e avrà dalla sua parte l’esempio dei suoi avi e di suo padre, che ha saputo ridare speranza ai giapponesi fino alla recente tragedia di Fukushima.
Nonostante la rilevanza della successione al trono, il potere politico è ormai esclusivamente nelle mani del governo. In questo caso, il primo ministro Shinzō Abe potrebbe sfruttare lo spirito del cambiamento del passaggio alla nuova Era, per chiedere al paese di reagire alle tre grandi crisi del nostro tempo: i nuovi rischi di uno scenario internazionale instabile, le prospettive socio-economico incerte, la sfiducia verso la classe politica.
La prima sfida che il Giappone dovrà affrontare è quella internazionale. Il governo deve ridefinire il ruolo del Giappone in un orizzonte geopolitico che non è mai stato così dinamico e complesso dagli anni Ottanta. Finora il Giappone ha provato a proteggere i suoi interessi nelle relazioni con i nuovi giganti dell’Asia e nelle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti, ma non può più navigare a vista. Dagli anni Settanta Tokyo segue il principio affermato dall’allora Vice-Ministro della Difesa Seiki Nishihiro: la Cina può essere più forte del Giappone, ma non sarà mai più forte dell’alleanza Giappone-Stati Uniti. Tuttavia, data la continua crescita della capacità militare cinese, le inevitabili occasioni di attrito dell’occidente con la Russia e le minacce di Pyongyang prima del recente disgelo sulla penisola coreana, il Giappone non può rassegnarsi alla decadenza mentre gli altri conquistano il Pacifico.
Il governo di Tokyo sta cercando di costruire buone relazioni con gli attori chiave della sicurezza internazionale nella regione: Pechino e Mosca. Entrambi i rapporti sono ancora ambigui e controversi. Con la Cina è il tempo della “distensione tattica”, ma le ambizioni militari di Pechino sul Mar Cinese Meridionale e le loro implicazioni sui traffici commerciali e il controllo dell’area potrebbero presto rivelarsi più pericolose dei missili della Corea del Nord. D’altro canto, la Strategia di Sicurezza Nazionale del 2013 ha aperto alla Russia, indicando la cooperazione con Mosca come priorità per la pace e la stabilità nell’area, ma continua la rivendicazione dei due paesi sui circa sessanta isolotti di Curili.
La seconda sfida è quella dello sviluppo socio-economico. Dal 2013 il Giappone ha lanciato la cosiddetta Abeconomics, una strategia che coniuga politiche fiscali, monetarie e riforme strutturali, per risollevare le sorti di un sistema economico che progredisce a rilento. A dispetto dei risultati positivi ottenuti nel mercato del lavoro, con la disoccupazione inferiore al 3%, il Giappone ha il debito pubblico più alto del mondo, con il livello record del 253% del suo Pil nel 2017. Inoltre, il declino demografico della popolazione sta spingendo le finanze pubbliche sull’orlo del baratro. Nei decenni a venire sarà sempre più difficile assicurare la sostenibilità del modello di welfare giapponese. L’altro problema cronico dell’economia è la scarsa capacità di attrarre investimenti dall’estero. Il confronto con le altre grandi economie del mondo è davvero impietoso e dopo la ritirata degli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership – imprevedibile prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca – uno dei principali obiettivi dell’Abeconomics, cioè raddoppiare gli investimenti diretti dall’estero entro il 2020 sarà quasi irraggiungibile. Tokyo ha già gestito con discreto successo dei passaggi storici simili, adeguandosi alle decisioni unilaterali di Washington come ad esempio il cosiddetto “shock Nixon” del 1971, ma il Giappone di Abe potrebbe faticare molto di più dinnanzi allo “shock Trump”.
L’ultimo grande dilemma del Giappone è la credibilità della classe politica e quindi i rischi per la sua democrazia. Come 150 anni fa, si ripropone in modo piuttosto inaspettato il problema del potere delle élite che si pongono fra l’imperatore e la popolazione. Ignorando i meccanismi di partecipazione democratica, le élite politiche giapponesi vivono come antiche dinastie. Analizzando 24 democrazie e vent’anni della loro vita politica, dal 1995 al 2016, Daniel M. Smith (Dipartimento di Governo, Harvard University) ha scoperto che il Giappone è tra i primi tre paesi dove l’influenza delle dinastie in politica è più forte. Più di un quarto dei membri della Camera dei rappresentanti della Dieta nazionale appartengono a un gruppo ristretto di poche grandi famiglie dove il potere politico si eredita e si tramanda. Un esempio celebre è quello dell’ex primo ministro Keizō Obuchi, la cui figlia Yūko, ha svolto anche il ruolo di ministro dell’economia. Oltre al problema del “partito e mezzo”, la crisi politica che crea più malumori e sfiducia nella popolazione è quella della chiusura di un sistema bloccato, dove il potere delle dinastie domina sulle scelte dei cittadini.
Curiosamente, queste tre crisi contemporanee ricordano le sfide che il Giappone dovette affrontare all’alba dell’Era Meiji: le relazioni con l’estero, la precarietà interna, i vizi delle élite. L’augurio che si può fare al popolo giapponese in vista di questa ricorrenza è quello di riuscire ancora una volta a stupire e offrire un modello di cambiamento lungimirante, non solo per i paesi asiatici, ma per il mondo intero con il quale condivide un destino in bilico tra rischi e speranze.
È il 150° dell’Era Meiji, una fase storica che cambiò radicalmente il Paese. La ricorrenza è significativa perché nel 2019 Akihito dovrebbe abdicare.
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