“Ahmed Lahri non potrà più presentare il telegiornale delle 19 e sarà trasferito a un altro servizio di Canal Algérie”. Questo il comunicato della televisione di Stato algerina dopo che il conduttore del notiziario serale del 22 febbraio ha citato Abdelaziz Bouteflika omettendone la carica di Presidente della Repubblica. Giusta punizione secondo alcuni (pochi), manovra autoritaria per gli altri (la maggioranza, a giudicare dai commenti su internet).
Sullo sfondo, un presidente settantottenne costretto in sedia a rotelle. Succeduto a Liamine Zéroual nel 1999, Bouteflika appare sempre più inabile all’esercizio della sua carica: il fatto che il suo ultimo discorso al popolo risaga al 2012 non fa che alimentare voci su condizioni di salute precarie.
Il prossimo inquilino di palazzo El Mouradia
Pur dichiarando di voler restare in sella fino al 2019, Bouteflika sta preparando l’addio al palazzo El Mouradia, sede della presidenza algerina. Nel luglio scorso, il licenziamento del generale Toufik, capo dei servizi segreti per venticinque anni, è da attribuire alla volontà di riguadagnare il controllo dell’intelligence e dell’esercito, autentici detentori del potere, prima di trasmettere la guida al proprio delfino.
E sul nome del delfino i pronostici si sprecano. L’istituto di geostrategia americano “Stratfor” prevede che Bouteflika mollerà lo scettro nel corso del 2016, con tre papabili candidati per il rimpiazzo: l’attuale Primo Ministro Abdelmalek Sellal, l’ex premier Ahmed Ouhyaya e il favorito Lakhdar Brahimi, filoamericano, ex-ministro degli affari esteri ed ex-inviato speciale di Ban Ki-Moon in Siria. Escluso invece l’avvicendamento a favore del fratello del Presidente, Said, docente universitario catapultato sulla scena politica come consigliere intimissimo di Abdelaziz da quando questi è stato colpito da un ictus nel 2013. Insomma, niente scenari cubani.
Tra riforme e austerità
L’uscita di scena si realizzerebbe prima della definitiva caduta in disgrazia di Bouteflika. Le riforme costituzionali adottate il 7 febbraio sono un tentativo maldestro di salvare il salvabile: mentre è stato accolto positivamente il riconoscimento a lingua ufficiale del tamazight (il “berbero” parlato nella regione orientale della Cabilia), la reintroduzione di un limite ai mandati presidenziali (non più di due quinquenni consecutivi) è stata etichettata come puramente “estetica”.
Similmente alla Libia gheddafiana e, in misura minore, alla Russia di Putin, l’Algeria di Bouteflika è riuscita a trasformare i propri cittadini in clienti grazie alla distribuzione delle rendite degli idrocarburi, spina dorsale dell’economia nazionale: un alloggio decente e infrastrutture in cambio della subordinazione al regime. Tale politica non ha giovato all’economia reale e alllo sviluppo dell’apparato industriale, alimentando invece clientelismo e corruzione. Come recita l’adagio, chi semina vento raccoglie tempesta; e ora che il prezzo del petrolio è ai minimi storici, il governo si è visto costretto a ridurre fortemente le sovvenzioni per gas, elettricità e carburanti. Il potere di acquisto degli Algerini diminuisce mentre il malcontento monta al pari del prezzo di benzina e gasolio (in media +40% dal primo gennaio di quest’anno).
La ferita aperta della guerra civile freno alla rivoluzione?
Facendo mente locale sulle cosiddette “primavere arabe”, tra gli assenti figura appunto l’Algeria. E visto il loro risultato in diversi paesi, verrebbe quasi da rallegrarsene. In realtà, ciò che non si è verificato a Costantina o a Orano è l’esplosione di un bubbone che ogni giorno continua a pulsare al ritmo di circa 500 tra proteste e scontri, prontamente soffocati dalla polizia. Inoltre, proprio l’Algeria è stata un’antesignana della rivolta nel mondo arabo. È il 1988 quando migliaia di giovani algerini scendono nelle strade per manifestare contro il Fronte di Liberazione Nazionale, partito unico uscito vincitore dalla guerra di indipendenza contro la Francia, terminata solo ventisei anni prima. I loro slogan contro un sistema autoritario, le torture dei servizi segreti e un’inefficiente economia socialista sono repressi nel sangue, ma non del tutto invano; il regime dell’FLN si vede costretto a fare un passo indietro, concedendo il multipartitismo e annunciando riforme. Il sogno di cambiamento naufraga, purtroppo, al primo turno delle prime elezioni libere nel Paese, quando la vittoria del Fronte Islamico di Salvezza fa temere al governo in carica di vedersi sfuggire di mano il potere. Ben prima dell’egiziano el-Sisi, il colpo di stato militare è visto come panacea contro l’islamismo; ma le conseguenze sono a dir poco tragiche: una guerra civile che terminerà solo nel 2002 e 200000 morti.
Memore di un sanguinoso conflitto interno e reso inquieto dal vicino caos libico, nel paese magrebino il malcontento popolare si è fatto sfuggire il treno delle “primavere arabe”. Ma l’eccezionalità algerina non potrà durare per sempre, e ciò malgrado l’immagine orwelliana di un Bouteflika rieletto nel 2014 senza neppure comparire in pubblico. Che la resa del presidente Grande Invalido si riveli l’occasione per la svolta?
“Ahmed Lahri non potrà più presentare il telegiornale delle 19 e sarà trasferito a un altro servizio di Canal Algérie”. Questo il comunicato della televisione di Stato algerina dopo che il conduttore del notiziario serale del 22 febbraio ha citato Abdelaziz Bouteflika omettendone la carica di Presidente della Repubblica. Giusta punizione secondo alcuni (pochi), manovra autoritaria per gli altri (la maggioranza, a giudicare dai commenti su internet).