L’Arabia Saudita serra le fila del mondo sunnita, o almeno ci prova. Sembra questo il senso della visita (3-6 marzo) a Riyadh del Primo Ministro pakistano, Nawaz Sharif, da sempre in ottimi rapporti con la principale monarchia del Golfo. Si tratta del primo incontro ufficiale dall’incoronazione di Salman bin Abdulaziz Al Saud, subentrato a gennaio al re Abdullah.
Le minacce rappresentate dall’ascesa dello Stato Islamico in Siria e in Iraq e dalla presa del potere da parte delle milizie sciite al-Houthi nello Yemen costringono l’Arabia Saudita sulla difensiva e rendono necessaria l’adozione di misure eccezionali, suscettibili di tutelare sicurezza e interessi del Regno. Nelle ultime settimane, il nuovo monarca ha fatto mostra di un grande attivismo diplomatico, finalizzato, in primo luogo, ad appianare annose divergenze, che hanno negli ultimi anni frammentato la compagine sunnita. Innanzitutto, sarebbe nei piani del re Salman un riavvicinamento con la Turchia e il Qatar, Paesi fortemente criticati, in questi ultimi anni, per il loro sostegno alla Fratellanza Musulmana, considerata dalla monarchia saudita una grave minaccia per la sua stessa sopravvivenza. Tra gli obiettivi del nuovo monarca vi sarebbe anche quello di favorire una ripresa delle relazioni tra Turchia ed Egitto, deterioratesi in seguito al colpo di Stato militare del generale al-Sisi, che nel 2013 ha deposto l’allora Presidente Mohammed Morsi, alleato di Ankara.
Il ricompattamento del fronte sunnita avrebbe come primo scopo quello di razionalizzazione le politiche adottate in Siria, dove il proliferare di gruppi armati, ciascuno sponsorizzato da un diverso Paese della regione, ha finito per favorire il governo di Bashar al-Assad e ha consentito allo Stato Islamico di imporsi come principale forza di opposizione.

Si tratta di un’operazione estremamente complessa, considerati i divergenti interessi in palio, ma qualcosa si starebbe già muovendo sottotraccia: come riportato da varie agenzie di stampa, il piano sarebbe quello di spingere Jabhat al-Nusra a recidere i suoi legami con al-Qaeda e fondersi con altre formazioni locali, dando vita a una forza in grado di influenzare gli esiti del conflitto, soprattutto grazie al sostegno che le verrebbe offerto da questo variegato fronte sunnita.
La Siria, tuttavia, rappresenta solo uno dei molteplici terreni di scontro sui quali l’Arabia Saudita è impegnata per mantenere la propria influenza sulla regione ed è proprio questa la ragione che avrebbe spinto re Salman a rivolgersi a uno dei più stretti alleati di cui disponga il Paese: il Pakistan.
I rapporti tra i due Paesi affondano le loro radici negli anni Sessanta, quando Riyadh chiese e ottenne dal Pakistan assistenza in ambito militare, fondamentale per accrescere le limitate capacità delle proprie forze di sicurezza nazionali. Negli anni successivi, le relazioni bilaterali furono progressivamente rafforzate, anche grazie alla sostanziale complementarietà degli interessi dei due Paesi: da una parte, infatti, la monarchia saudita, in quanto custode dei più importanti siti religiosi dell’Islam, offriva al Pakistan quella legittimazione religiosa che il Paese aveva a lungo ricercato, dall’altra, invece, Riyadh poteva contare sul sostegno di uno dei più importanti apparati militari della regione, senza dover necessariamente provvedere al rafforzamento delle proprie forze armate (con i potenziali rischi che ne sarebbero derivati per gli equilibri interni di potere). A partire dagli anni Settanta, inoltre, i proventi derivanti dalla vendita del petrolio avrebbero consentito all’Arabia Saudita di destinare risorse importanti a favore della fragile economia pakistana.
Non più tardi dello scorso anno, Riyadh ha corrisposto al Pakistan un prestito a interesse zero del valore di circa 1,5 miliardi di dollari per incrementare le sue riserve di valuta estera, in quel periodo prossime all’esaurimento. Se è vero che è negli interessi dell’Arabia Saudita evitare il collasso pakistano (alla luce dei forti effetti destabilizzanti che ne deriverebbero per l’intera regione), in molti hanno avanzato il sospetto che tale somma avesse come scopo quello di ottenere un più diretto coinvolgimento del Pakistan nel conflitto siriano. D’altronde, i militari pakistani avevano già svolto un ruolo importate nella repressione dell’insurrezione popolare bahreinita attuata dal Consiglio di Cooperazione del Golfo nel 2011. Tuttavia, con una popolazione composta per circa il 20% da sciiti, il Pakistan ha sinora evitato di adottare politiche che finirebbero inevitabilmente per compromettere i suoi rapporti con il vicino iraniano e aggravare il livello, già elevato, di violenza settaria nel Paese.
Un eventuale ulteriore inasprimento della rivalità tra Iran e Arabia Saudita potrebbe, però, costringere il Pakistan a una più netta scelta di campo. Sono in molti a ritenere che esista, ad esempio, una sorta di patto non scritto tra Riyadh e Islamabad, che garantirebbe alla prima le proprie armi nucleari pakistane, nel caso in cui anche Teheran riuscisse a dotarsene.
Il Pakistan rappresenta, dunque, un prezioso alleato per l’Arabia Saudita. Da alcuni mesi, tuttavia, i rapporti bilaterali attraversano una fase estremamente delicata, soprattutto a causa delle critiche mosse ai sauditi da una parte consistente della società civile pakistana e da alcuni settori della classe politica per la presunta influenza negativa esercitata sul Paese da Riyadh.

L’attentato di Peshawar dello scorso dicembre, nel quale circa 160 persone (molti dei quali bambini) hanno perso la vita, ha accesso un aspro dibattito interno, incentrato sull’individuazione dei reali responsabili dell’espansione delle ideologie estremiste che hanno favorito, nei decenni, l’emergere di formazioni terroristiche. Sebbene la reazione delle autorità pakistane abbia sinora seguito un approccio di tipo prevalentemente militare, lo shock provocato dall’attentato ha avuto come risultato quello di fare luce su fenomeni sino ad allora distanti dall’attenzione dell’opinione pubblica. In particolare, è stata da più parti sollevata la necessità di rivedere il sistema educativo nazionale, nello specifico il ruolo ricoperto dai seminari religiosi.
Ve ne sarebbero circa 40.000 nel Paese, di cui solo 25.000 registrati presso le autorità. La loro proliferazione è spiegabile da una parte con l’incapacità dell’apparato statuale pakistano di assolvere alle sue funzione basilari e dall’altra con una esplicita volontà dei governanti alternatisi alla guida del Paese negli ultimi quattro decenni di utilizzare la religione come strumento per rafforzare un’identità nazionale altrimenti molto debole.
L’Arabia Saudita ha svolto un ruolo di primo piano in questo processo di radicalizzazione, mettendo a disposizione ingenti risorse per promuovere una versione dell’Islam peraltro esogena rispetto a quella, più aperta e tollerante, tradizionalmente diffusa in Pakistan. Secondo i dati diffusi dal Ministero dell’Interno pakistano, Riyadh sarebbe tra i maggiori finanziatori stranieri degli istituti religiosi presenti nel Paese, insieme a Qatar e Kuwait. Se sino a poco tempo fa tale pratica consolidata era stata ampiamente tollerata, oggi sono in molti a chiedere una maggiore regolamentazione del settore e un’interruzione dell’afflusso di finanziamenti stranieri. Poche settimane fa, un ministro del governo pakistano aveva pubblicamente accusato l’Arabia Saudita di alimentare instabilità nella regione, costringendo l’Ambasciata saudita a diffondere un comunicato ufficiale per precisare che ogni donazione ai seminari religiosi viene autorizzata dalle autorità locali. Affermazione seguita, poco dopo, da una nota del Ministero degli Esteri pakistano, nella quale si dichiarava che presto anche le donazioni fatte dai privati attraverso i canali informali sarebbero state monitorate dalle autorità. Sebbene la nota non facesse non esplicito riferimento all’Arabia Saudita, è evidente come gli episodi siano tra di loro collegati. D’altra parte, i donatori sauditi rappresentano tuttora una importante fonte di finanziamento per i gruppi terroristici di ispirazione sunnita attivi in Pakistan e in altri Paesi della regione.
La visita in Arabia Saudita del Premier pakistano Nawaz Sharif servirà, dunque, per tentare di superare le tensioni dell’ultimo periodo e rinsaldare un rapporto da cui entrambe le parti traggono ancora beneficio. Le rimesse degli oltre 1,7 milioni di lavoratori pakistani presenti sul territorio saudita rappresentano tuttora una quota significativa del Prodotto Interno Lordo del Pakistan. Allo stesso modo, l’assistenza militare di Islamabad, in particolare il suo contributo in termini di uomini, costituisce ancora un elemento importante per le politiche di difesa di Riyadh, specialmente alla luce delle molteplici minacce che il Paese si trova a dover affrontare in questo periodo. Dietro l’invito a Nawaz Sharif si celerebbe proprio la volontà del re Salman di chiedere al Pakistan l’invio di nuovi soldati da impiegare a difesa degli obiettivi più sensibili del Paese. Richiesta che difficilmente potrà essere accolta in toto da Islamabad, considerate le ingenti risorse assorbite dalla campagna militare di contrasto al terrorismo in corso nelle zone al confine con l’Afghanistan e la necessità di mantenere un cospicuo contingente lungo la frontiera con l’India.
Sebbene l’alleanza tra i due Paesi non appaia a rischio, è ipotizzabile che una effettiva maturazione della società civile pakistana possa costringere le autorità di Islamabad a una maggiore trasparenza nei suoi rapporti con Riyadh. Eventualità che limiterebbe in qualche modo le capacità di influenza dell’Arabia Saudita, costringendola a una più ampia riflessione sui principi guida delle sue politiche regionali.Sembra, però, improbabile che ciò avvenga già nel breve periodo, trattandosi di pratiche consolidatesi nel tempo e intrinsecamente legate alla natura stessa delsistema politicosaudita. Politiche, inoltre, sostenute da risorse economiche ancora ingenti (il valore del fondo sovrano saudita è di circa $757 miliardi), nonostante il crollo del prezzo del petrolio registrato a partire dalla seconda metà del 2014. Ogni discorso,dunque, è rimandato al prossimo cambio di leadership, quando potrebbero approfondirsi le crepe già emerse in questi ultimi anni.
Nel frattempo, Riyadh fa la conta dei suoi alleati e si prepara a una nuova fase della guerra, sempre meno fredda, che l’oppone a Teheran.
@raskolnikov86
L’Arabia Saudita serra le fila del mondo sunnita, o almeno ci prova. Sembra questo il senso della visita (3-6 marzo) a Riyadh del Primo Ministro pakistano, Nawaz Sharif, da sempre in ottimi rapporti con la principale monarchia del Golfo. Si tratta del primo incontro ufficiale dall’incoronazione di Salman bin Abdulaziz Al Saud, subentrato a gennaio al re Abdullah.