Si afferma la figura dell’avvocato europeo, ma gli ostacoli sono molti.
“Diventa avvocato senza esame di abilitazione”: questo lo slogan che ha fatto sognare centinaia di laureati italiani che, ottenendo il titolo di abogado in Spagna, hanno potuto esercitare la professione forense in Italia ricevendo ora anche la benedizione della Corte di Giustizia Ue.
Nel luglio di quest’anno, infatti, i giudici europei hanno decretato che la possibilità di scegliere il paese dove ottenere il titolo professionale, espressione del più ampio principio di libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione Europea, è proprio una delle finalità del diritto europeo, e non ne costituisce un abuso.
Chissà se quando i padri fondatori dell’Unione hanno affermato che la libertà di circolazione costituisce un pilastro dell’Europa unita pensavano davvero a un aspirante avvocato che indipendentemente dal Paese di residenza o di laurea si rechi in un altro Stato membro al solo scopo di conseguire il titolo senza affrontare l’esame di abilitazione.
Sicuramente non lo pensava il Consiglio degli Ordini degli Avvocati di Roma che, come quelli di alcune altre città italiane, riteneva tale pratica abusiva, dovendo affrontare per questo, già nel 2013, un provvedimento sanzionatorio dell’Autorità antitrust.
E’ vero che la libertà di circolazione implica la possibilità, per i cittadini europei, di lavorare e stabilirsi in ogni Stato membro. Ma è più facile a dirsi che a farsi per coloro le cui attività presuppongono specifiche qualifiche professionali. Per un professionista, infatti, non è sufficiente essere potenzialmente libero di risiedere e lavorare all’estero se poi i titoli accademici e professionali non hanno alcun valore oltre i confini nazionali.
Per questo sono state emanate direttive volte al reciproco riconoscimento dei titoli professionali. Manca tuttavia una completa armonizzazione delle prove abilitative, e ciò genera inevitabilmente un ‘examination shopping’, che sicuramente non esalta la preparazione dei professionisti ed è potenzialmente dannoso per l’intera comunità di utenti.
Inoltre, se svolgere l’attività di medico o insegnante in Italia, Francia o Gran Bretagna è tutto sommato indifferente, lo stesso non può dirsi per la professione forense.
Innanzi tutto la formazione, accademica e professionale, è irrimediabilmente radicata nei diversi ordinamenti giuridici: un preparatissimo avvocato italiano può essere completamente a digiuno del diritto di tutti gli altri Stati membri. Poi la conoscenza delle lingue; non si tratta di un ostacolo insormontabile, ma sta di fatto che sono pochi gli avvocati italiani che hanno familiarità con l’inglese, e ancor meno con altre lingue. Infine i clienti: l’attività di un avvocato si alimenta spesso di relazioni sociali e rapporti di fiducia che difficilmente possono essere ricostruiti al di fuori dei confini nazionali.
Così, se è raro trovare all’estero avvocati italiani, e ancor più raro imbattersi in un collega straniero nei nostri tribunali, numerosi sono gli abogados che sfoggiano un accento tutt’altro che castigliano. Secondo i dati della Commissione Europea, negli ultimi 22 anni in Europa meno di 7.500 avvocati si sono trasferiti da un paese all’altro, a fronte di più di 66.000 medici e 60.000 insegnanti di scuole superiori. Nello stesso periodo dall’Italia sono partiti solo 664 avvocati, mentre ne sono arrivati 961, di cui il 91% (guarda caso) dalla Spagna.
Eppure, nel mercato unico europeo, l’avvocatura non può permettersi di rimanere legata a un contesto nazionale. Gli avvocati con esperienze in altri paesi fungono da “testa di ponte” per le imprese italiane che operano all’estero, e sono in grado di accogliere le imprese straniere che intendano investire in Italia. Così, la mancanza di professionisti adeguati è fra le cause di una scarsa competitività dell’intero sistema economico.
In questo scenario, sono in controtendenza i grandi studi internazionali. I network in cui sono inseriti costituiscono delle corsie preferenziali che consentono ai professionisti di muoversi fra vari paesi. La conoscenza delle lingue, quantomeno dell’inglese, è un prerequisito fondamentale dovuto ai quotidiani rapporti con imprese estere, e sempre più la rete di relazioni, in queste realtà, è incentrata sul brand dello studio, più che sui rapporti personali intrattenuti dai singoli professionisti.
Inoltre, la circolazione è facilitata dalla specializzazione nei settori più armonizzati grazie all’influenza, diretta o indiretta, del diritto di fonte europea. Se non è vero, com’è stato affermato, che l’80% delle leggi nazionali proviene da Bruxelles, non vi è dubbio che vi sono numerosi settori in cui la forza armonizzante del diritto europeo svolge un ruolo fondamentale, così che il professionista specializzato in quelle aree può adattarsi facilmente ai contesti stranieri.
Ma questa realtà è ancora marginale in termini di numero di avvocati coinvolti. Non è sufficiente. L’Europa ha rimosso gli ostacoli burocratici, ora gli avvocati dovrebbero sforzarsi di sfruttare le potenzialità di un mercato unificato delle professioni. Affinché questo sia possibile, sarebbe necessario un cambiamento culturale, che parta dalle università e arrivi alla natura stessa degli studi legali.
Nella speranza che gli sforzi di Bruxelles non siano serviti solo a evitare un esame di abilitazione.
Si afferma la figura dell’avvocato europeo, ma gli ostacoli sono molti.