Ha vissuto in Marocco senza documenti per quattro anni Aissatou Berry, da quando nel 2011 decise di lasciare la Guinea per paura di ritorsioni contro la famiglia. Il marito, un soldato che combatteva per Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio, rimase ucciso negli scontri del 2010 e Aissatou aveva cinque bambini ancora piccoli da mettere in salvo, racconta a Jeune Afrique. Partì senza sapere dove andare. A piedi insieme ai figli fece un viaggio lungo ventuno giorni attraverso il Ghana, il Togo, l’Algeria, fino a raggiungere il Marocco: prima Oujda, poi Rabat, poi Nador e infine Tangeri, dove ha finalmente trovato un po’ di pace.

Perché dopo quattro anni di paure, di controlli e di arresti, la settimana scorsa Aissatou ha potuto beneficiare della massiccia campagna di regolarizzazione dei migranti messa in atto dal governo marocchino. Tra le tante peripezie in cerca di stabilità, ha vissuto anche nella foresta di Gourougou, non lontano da Melilla, dove si infrangono le speranze di molti migranti che tentano il salto verso l’Europa. E dove oggi vivono in tende sistemate nella foresta molti uomini, donne, bambini, respinti alla frontiera e in attesa di essere espulsi. Una foresta che ormai è diventata un grande centro di detenzione a cielo aperto. La politica marocchina in materia di immigrazione un po’ dà e un po’ toglie.
«Per dieci anni le autorità hanno attuato una politica di sicurezza con la scusa di proteggere le frontiere dalla mafia e dai trafficanti di esseri umani. Per anni abbiamo dovuto combattere l’assioma per cui “nero” vuol dire “illegale» commenta a East Mehdi Alioua, sociologo dell’università Science Po di Rabat e membro dell’organizzazione GADEM, che si occupa di diritti dei migranti. A settembre 2013 lo stato ha deciso di allentare la presa sui migranti e avviare una campagna di regolarizzazioni, valutando anche quali fossero i loro bisogni, ma contemporaneamente la polizia ha continuato a condurre ronde contro di loro e la burocrazia è poco collaborativa: « ha impiegato infatti più di un anno per registrare ventisettemila domande quando sarebbero bastati due mesi».

Oggi gli abusi più gravi si stanno consumando a Nador, nel nord-est del paese, dove proprio negli ultimi giorni la polizia ha arrestato duecento persone e sequestrato persino beni di prima necessità, costringendo molti, anche chi i documenti li ha già ottenuti, a vivere all’addiaccio. Sarà per questo che il commissario UE all’immigrazione, Dimitri Avramopulos, si è detto molto preoccupato per il modo in cui il Marocco tratta i migranti, soprattutto i sub-sahariani. E ha sottolineato il generoso stanziamento di dieci milioni di dollari da parte dell’UE per progetti finalizzati all’integrazione e alla normalizzazione della posizione degli irregolari.
Ma per Alioua quello dell’UE è un gioco sporco: «con la scusa della messa in sicurezza delle frontiere e con tutte le pressioni che ne derivano, l’Unione ha come unico obiettivo quello di respingere i “non desiderati” oltre i confini in modo che siano gli stati sulla sponda sud del Mediterraneo a doversene occupare. Grazie a questa politica le frontiere hanno smesso di essere uno stato di diritto per diventare uno stato di polizia».
Oggi si muore tentando di raggiungere l’Europa via mare, in quel lembo di blu che separa Lampedusa dal Nord Africa; si viene respinti a Ceuta e Melilla e fino a qualche mese fa persino sotto una pioggia di proiettili di gomma; in Grecia e in Bulgaria si viene allo stesso modo maltrattati, arrestati, ancora respinti. L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisce che la libertà di movimento è un diritto fondamentale, mentre la possibilità di vivere o di stabilirsi in un determinato paese, diverso da quello di origine, è oggetto di valutazioni politiche.

«Tutti i paesi che praticano la politica dei visti violano l’articolo 13. Per salvare vite umane l’unica soluzione possibile oggi è aprire le frontiere e concentrarsi sul mercato del lavoro» spiega Alioua. E continua: «Se i migranti pagano migliaia di dollari per arrivare in Europa, dove probabilmente troveranno solo lavoro nero e mal pagato, avranno comunque qualcosa in più che nel paese d’origine e questo, tra i tanti problemi, pone anche una pressione sui salari e attua una sorta di delocalizzazione interna. Ma non sono i migranti il problema, lo è invece il capitalismo senza regole, l’avidità dei ricchi, la mancanza di seri controlli sul lavoro».
Mai come oggi tra l’altro la compressione della libertà di movimento è invocata dai governi in nome di una lotta al terrorismo che nasce prima di tutto da razzismo e xenofobia, i quali, accentuando le disparità, producono umiliazione e violenza. «Le due sponde del Mediterraneo allora dovrebbero capire che possono attuare tutte le politiche di sicurezza che vogliono, ma le reti dell’immigrazione saranno sempre più forti», conclude Mehdi Alioua.
Ha vissuto in Marocco senza documenti per quattro anni Aissatou Berry, da quando nel 2011 decise di lasciare la Guinea per paura di ritorsioni contro la famiglia. Il marito, un soldato che combatteva per Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio, rimase ucciso negli scontri del 2010 e Aissatou aveva cinque bambini ancora piccoli da mettere in salvo, racconta a Jeune Afrique. Partì senza sapere dove andare. A piedi insieme ai figli fece un viaggio lungo ventuno giorni attraverso il Ghana, il Togo, l’Algeria, fino a raggiungere il Marocco: prima Oujda, poi Rabat, poi Nador e infine Tangeri, dove ha finalmente trovato un po’ di pace.