Una crisi senza precedenti come quella in corso ha comportato grandi difficoltà per molti Stati Membri UE, rivelando notevoli carenze nelle capacità di proteggere i confini esterni, nonché di ricevere e processare i migranti in arrivo.
La risposta europea alla crisi è stata sino ad ora piuttosto frammentaria ed inefficace. Nel settembre 2015, i Ministri dell’interno della UE hanno votato a maggioranza un piano per la “relocation” di 160.000 migranti dagli Stati membri più sotto pressione (come Grecia, Italia ed Ungheria ) ad altri Stati membri sulla base di quote obbligatorie. Insieme al ricollocamento, è stato deciso l’invio di staff da parte delle agenzie UE in 6 postazioni in Italia e 5 in Grecia – i cosidetti “hotspot” – destinate all’identificazione dei migranti, alla raccolta delle domande di asilo ed alla verifica su eventuali rischi per la sicurezza. Dopo che Republica ceca, Slovacchia, Ungheria e Romania sono state messe in minoranza in sede di voto, qualche settimana dopo anche il nuovo Governo polacco si è opposto al piano. Proprio a fronte di questa diffusa opposizione ad esso, solo poche centinaia di migranti sono stati sinora ricollocati come deciso dall’accordo raggiunto in sede europea. Allo stesso tempo, non sono stati fatti significativi passi avanti per ciò che concerne la revisione delle regole di Dublino.
Ad ottobre, poi, la UE ha iniziato a negoziare un accordo con la Turchia, chiuso a metà del marzo 2016. Con questo accordo UE e Turchia hanno principalmente concordato che: a) tutti i nuovi migranti irregolari pervenuti in Grecia dalla Turchia a partire dal 20 marzo 2016 saranno riportati in Turchia; b) per ogni siriano re-inviato dalla Grecia in Turchia, un altro siriano sarà ricollocato nel territorio della UE; c) la Turchia adotterà misure per evitare nuove rotte irregolari dal proprio territorio verso la UE. Tutto ciò in cambio: a) del pagamento da parte della UE alla Turchia di 3 miliardi di euro, seguiti da altri 3 miliardi da corrispondere entro la fine del 2018; b) un’accelerazione della liberalizzazione dei requisiti per i visti per i cittadini turchi; c) l’impegno ad approfondire l’unione doganale tra UE e Turchia; d) l’impegno a dare nuovo slancio al processo di adesione della Turchia alla UE. Resta, tuttavia, un grande punto interrogativo sulla effettiva volontà politica degli Stati membri di implementare questo accordo.
Queste, come le altre misure decise dai leader europei – come il dispiegamento di forze di confine europee, o l’adozione di finanziamenti di emergenza per assistere i migranti in Paesi UE e non UE, il “resettlement” di migranti provenienti da Paesi non UE per fornire loro un’alternativa sicura ai transiti gestiti da scafisti e trafficanti, e il miglioramento delle procedure per far rientrare in patria i migranti economici che si vedono respingere il riconoscimento dello status di rifugiati – non sono state implementate adeguatamente. Allo stesso tempo, anche a fronte degli attacchi terroristici sul suolo europeo – in particolare in Francia e Belgio – il tema delle risposte da dare alla crisi dei migranti si intreccia con quello delle misure da adottare per contrastare le minacce del terrorismo internazionale e garantire la sicurezza dei cittadini europei. A questo riguardo, molto di più deve esser fatto con riferimento alla condivisione di informazioni tra Stati UE: la riluttanza dei governi nazionali a condividere i dati raccolti dalle loro polizie e servizi di intelligence sta rendendo l’Europa vulnerabile nella lotta al terrorismo. Allo stesso tempo, l’armonizzazione delle legislazioni nazionali e l’adozione di strumenti davvero europei – come un procuratore europeo – con poteri e risorse adeguate è cruciale. Avere confini interni aperti senza avere una informazione aperta non è più sostenibile.
Al di là delle risposte espresse in sede UE, molti Stati membri hanno deciso unilateralmente di reintrodurre controlli interni in via temporanea: a partire dal settembre 2015, ben 8 Paesi hanno reintrodotto unilateralmente controlli ai confini . Questo tipo di iniziativa è probabilmente il principale problema politico oggi per l’Europa, dal momento che esso rischia di a) mettere a rischio la cooperazione giudiziaria e di polizia tra i Paesi Schengen, b) avere un impatto sull’economia della UE, c) comportare costi economici, politici e sociali, d) alimentare partiti e movimenti populisti e nazionalisti in tutto il Continente. Alla luce di ciò, la prospettiva di una reintroduzione addirittura permanente di tali controlli – per quanto improbabile – rappresenta un incubo non solo per i diritti dei cittadini e la libertà di movimento, ma anche da un punto di vista economico. Secondo la Commissione Europea, il ristabilimento di controlli ai confini all’interno dell’area Schengen genererebbe costi diretti per l’economia della UE tra i 5 e i 18 miliardi all’anno. I costi indiretti di medio periodo possono essere considerevolmente più alti con un impatto senza precedenti su commercio intra-comunitario, investimenti e mobilità. Secondo France Stratégie, il commercio tra Paesi della zona Schengen calerebbero di almeno il 10%. Secondo la Bertelsmann Stiftung, a seguito di una eventuale reintroduzione di controlli ai confine per un periodo di 10 anni, la performance economica della UE sarebbe tra i 500 miliardi e i 1.400 miliardi più bassa rispetto a quella che si avrebbe senza controlli.
