
Sui social giapponesi è stata salutata come la “rivoluzione della bellezza” dell’anno. Per la prima volta nella storia del Paese del Sol levante lo scettro di più bella dell’arcipelago è andato a una ragazza di colore. Ariana Miyamoto, 20 anni originaria della provincia di Nagasaki, figlia di un afroamericano e di una giapponese, è stata scelta per rappresentare il Giappone al concorso di Miss Universo di quest’anno. Perché l’evento è così “strano”?
Fino allo scorso 8 marzo, Miyamoto era solo una delle decine di migliaia di hāfu – “half” termine di uso comune in Giappone per “etichettare” i bambini nati da coppie miste – oggi residenti in Giappone. Giapponesi in tutto e per tutto, tranne che per il loro aspetto in alcuni casi “non convenzionale” (un naso più grande del normale, occhi meno affilati o addirittura un colore della pelle diverso) che attira l’attenzione dei più in un Paese dove gli stranieri costituiscono appena l’1,5 per cento della popolazione, almeno secondo le statistiche ufficiali.
“Ero incerta sul fatto che una hāfu come me fosse adatta a rappresentare il Giappone al concorso”, ha spiegato Miyamoto alla stampa. “È stato l’incoraggiamento di quanti mi sono stati vicini a convincermi a continuare”. Ma al di là delle frasi di circostanza, vale la pena soffermarsi sull’impegno preso dalla ragazza: “Vorrei che chi ha sofferto come me [per questioni di “razza”] abbia il coraggio [necessario ad andare avanti]”.
La discriminazione contro chi è solo per metà giapponese è ancora parecchio diffusa nel paese-arcipelago.
Il film Hāfu, uscito a fine 2013, ha gettato nuova luce sulla vita di bambini e giovani nati da coppie miste. Il film segue la vita di cinque figli di unioni internazionali in Giappone: c’è chi vi è nato e cresciuto come David, padre giapponese e madre ghanese, e chi va alla scoperta delle proprie radici come Sophia, di origine giapponese ma nata e cresciuta in Australia.
Nel caso del primo, vi è la difficoltà di essere riconosciuto come giapponese per il colore della pelle; nel caso della seconda la difficoltà nello stabilire una comunicazione efficace con una parte fondamentale di se stessa, mancando di uno strumento essenziale: la lingua.
C’è poi chi come Fusae – madre giapponese ma padre coreano, quindi perfettamente indistinguibile da una qualsiasi donna giapponese della sua età – che racconta di aver provato rabbia nello scoprire dele proprie origini non interamente giapponesi e di aver inizialmente considerato l’essere “mista” uno stigma pericoloso per la propria integrazione. E chi, come il piccolo Alex, a causa delle sue origini, diventa vittima di bullismo ed è costretto a cambiare due scuole.
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Parlando a un Ted talk a settembre 2013, una delle registe e autrici del lungometraggio, Megumi Nishikura, figlia di un giapponese e di un’americana, ha denunciato la difficoltà di chi è hāfu di essere riconosciuto come giapponese. “Cosa significa essere giapponese? – spiega Nishikura – Uno deve sembrare giapponese, parlare giapponese e comportarsi secondo tutti i costumi e le tradizioni giapponesi. E se costui non può riempire tutte le caselle al 100 per cento, allora non è giapponese”.
Nel paese-arcipelago è infatti ancora dominante l’idea di una nazione mono-etnica e culturalmente omogenea, un discorso che negli anni a partire dalla fine del XIX secolo è servito a modellare il moderno stato-nazione.
L’idea di Nishikura, nonché quella da cui si è sviluppato il film, è che sia necessario ridefinire il concetto di “giapponese”, includendo a pieno titolo i nati da coppie miste. Partendo dalla loro assoluta normalità di esseri umani e non dal loro essere giapponesi per metà.
L’altra faccia del problema è infatti una sorta di feticismo per gli hāfu, derivato dalla presenza alcuni “esemplari” rappresentativi in programmi tv e magazine femminili, che fa di loro una sorta di oggetto esotico di tendenza.
Eppure i bambini nati da coppie miste sono sempre di più: guardando alle statistiche del governo di Tokyo, sono oltre 20mila ogni anno i matrimoni internazionali e, facendo una stima, oggi in Giappone un bambino su 49 è misto. La globalizzazione e le politiche per contrastare l’invecchiamento della popolazione non faranno che spingere ulteriormente un cambiamento che è già in corso. Un processo che lo stesso termine hāfu, così connotato di razzismo, sembra sempre più inadeguato a descrivere.
@Ondariva