L’attuale fase della globalizzazione, caratterizzata dalla frammentazione delle catene del valore, ha avuto l’effetto per molte piccole e medie imprese italiane di spostare i legami di subfornitura al di fuori del proprio territorio di riferimento, rappresentato in alcuni casi dal distretto industriale.
In questo contesto, esportare ed internazionalizzarsi sono diventate per le imprese una strategia necessaria, piuttosto che una opzione, che la crisi cominciata nel 2008 ha reso ancor più impellente. Contemporaneamente anche le banche hanno dovuto fare i conti con l’effetto congiunto della globalizzazione e della crisi, che le ha portate, da un lato, a intraprendere percorsi di internazionalizzazione paralleli a quelli delle imprese e, dall’altro, a rifocalizzare il proprio business verso l’attività creditizia tradizionale, ponendo nuovamente al centro dell’attenzione la relazione con il cliente. Nel rispondere alle sfide con cui sono chiamate a misurarsi, le imprese e le banche possono realizzare fruttuose sinergie, migliorando la relazione tra le une e le altre e valorizzando i vantaggi competitivi connessi alla loro presenza sui mercati esteri. Le imprese possono riuscire meglio ad affrontare i costi fissi, onerosi e non recuperabili, che l’internazionalizzazione comporta. Le banche espandono la loro attività e si focalizzano maggiormente sulla relazione con il cliente, che rappresenta la loro più importante risorsa. Nel presente lavoro si approfondiscono in dettaglio i principali prodotti e servizi bancari, offerti soprattutto dalle banche internazionalizzate, a disposizione delle piccole e medie imprese interessate all’internazionalizzazione commerciale.
Dagli inizi degli anni ’90 i Paesi del G7 hanno visto diminuire rapidamente la loro incidenza sul prodotto mondiale. Accanto ad un effetto “composizione” dovuto al meccanismo di catching-up dei Paesi emergenti vi è per alcuni Paesi avanzati anche la presenza di un effetto “performance” sfavorevole, come ad esempio per il nostro Paese. La globalizzazione, oltre a portare alla ribalta nuovi protagonisti, ha anche inciso radicalmente sulle strategie delle imprese. Soprattutto la “nuova” globalizzazione, legata al progressivo ampliamento dei mercati internazionali di sbocco e di approvvigionamento e alla costituzione di sempre più articolate catene del valore, ha determinato, già prima della crisi, profondi e rapidi cambiamenti nei sistemi manifatturieri di ogni Paese. In questo quadro di cambiamenti epocali assumono sempre maggiore rilevanza per le imprese il posizionamento strategico e le dinamiche all’interno delle filiere globali, dove prevale la tendenza verso una maggiore frammentazione internazionale dei processi produttivi. In particolare, il sistema produttivo italiano si è trovato di fronte alla necessità di dover compiere profonde trasformazioni rispetto al passato, pena la minaccia di non riuscire a far fronte alle nuove sfide globali. Il mutato contesto competitivo ha infatti accentuato la dicotomia tra imprese orientate al solo mercato domestico, fondamentalmente statiche e poco propense all’innovazione, e imprese proiettate sui mercati internazionali, maggiormente dinamiche, più produttive e innovative. Le recenti e ravvicinate crisi finanziarie e economiche (quella dei subprime e quella del debito sovrano dei paesi periferici dell’Europa) hanno intensificato la necessità di rivolgersi verso nuovi mercati più dinamici: di fronte alla profonda stagnazione della domanda interna, rivolgersi ai mercati esteri non è più un’opzione, ma è diventata una strategia necessaria. Lo comprovano i dati del Rapporto ICE 2012-2013, che evidenziano come, dopo il crollo del 2009, nel triennio successivo il numero degli esportatori e i valori esportati siano sempre aumentati, compreso il 2012, anno di pesante contrazione dell’economia italiana. In particolare sono state le PMI a rendersi protagoniste di questa crescita: tra il 2010 e il 2013 la quota delle piccole imprese è aumentata dal 14,6 al 16,4 per cento e quella delle medie dal 30,3 al 32 per cento, mentre l’incidenza delle grandi è scesa dal 55,1 al 51,6 per cento. Parallelamente è proseguita anche l’internazionalizzazione produttiva delle imprese italiane, come attestano i dati sul numero di partecipate estere e di addetti all’estero, aumentati entrambi dal 2008 al 2012 di quasi il 6 per cento. Queste evidenze confermano come i processi di internazionalizzazione siano ineludibili e come le imprese italiane, anche di piccola dimensione, vi partecipino a pieno titolo, nonostante le enormi difficoltà entro cui si dibattono.
La scelta di internazionalizzarsi non è indolore. Esportare significa per le imprese affrontare immediatamente una serie di costi fissi (sunk costs), elevati e non recuperabili. Tali costi si riferiscono ai numerosi aspetti che l’impresa deve prendere in considerazione quando decide di esportare, tra i quali la raccolta di informazioni sulla domanda e sul regime istituzionale e giuridico-amministrativo del Paese estero, la ricerca delle controparti, la costituzione di una rete di vendita, le strategie di promozione commerciale 4. Costi che si amplificano ulteriormente quando l’impresa internazionalizza la produzione attraverso gli investimenti esteri diretti. L’impatto dei sunk costs varia con le caratteristiche dell’impresa ed appare più forte per le imprese di minore dimensione, meno strutturate delle medie e delle grandi dal punto di vista organizzativo e meno dotate di tecnologie digitali, che meglio consentono sia di acquisire e elaborare le informazioni necessarie per accedere ai mercati esteri sia di predisporre efficaci strategie di internazionalizzazione. Ma, oltre alla barriera rappresentata dai costi fissi iniziali, è proprio lo scenario della competizione globale che impone alle piccole imprese un profondo cambiamento di mentalità. Oggi la concorrenza sui mercati globali non è ad armi pari, cioè imprese tutte della stessa dimensione, tutte soggette agli stessi vincoli normativi, che devono tutte affrontare i medesimi costi per la forza lavoro e per le materie prime. Dalla sfida con le imprese estere più strutturate, talvolta colossi multinazionali, le piccole imprese difficilmente
escono vincitrici: hanno minori capitali da investire in ricerca e sviluppo e quindi minori chance di mettere a punto prodotti e processi competitivi; non hanno la capacità produttiva adeguata per accettare le commesse più grandi; hanno minore forza contrattuale nelle piattaforme di distribuzione globali; hanno minori mezzi da investire in promozione del marchio o dei prodotti. Tutte debolezze che rimandano al problema della insufficiente dimensione delle imprese italiane. È chiaro dunque che le piccole imprese hanno bisogno di contare su interlocutori in grado di ascoltarne i problemi e di proporre soluzioni adeguate. Non sorprende quindi che, come vedremo nel successivo paragrafo, il ruolo delle banche nell’internazionalizzazione delle Pmi sia aumentato d’importanza in questi ultimi anni.
In uno scenario che cambia e che si fa sempre più difficile le banche restano un importante punto di riferimento per le imprese. Approfondiamo allora i motivi alla
base del ruolo chiave degli istituti di credito nel sostegno dell’internazionalizzazione
delle imprese. La frammentazione del sistema produttivo richiede strutture territoriali che né l’ICE né le altre istituzioni pubbliche preposte all’internazionalizzazione possiedono. Da questo punto di vista le banche, specie se a forte radicamento territoriale, godono di un importante vantaggio competitivo grazie alla capillarità
della loro presenza sul territorio. Tale vantaggio competitivo è rafforzato dalla possibilità di sinergia e partnership con il sistema associativo e delle Camere di Commercio. Non solo. Ma se la banca, oltre ad essere radicata sul territorio, è anche
una banca globale, le opportunità per l’impresa si accrescono notevolmente, in quanto quest’ultima potrà avere a disposizione un’ampia rete di supporto e di consulenza all’estero. L’integrazione tra la rete presente sul territorio nazionale e quella estera comporta infatti per la banca l’adozione di nuovi modelli di servizio a supporto dell’internazionalizzazione delle imprese. Modelli di servizio che significano: migliore conoscenza dei mercati, più efficace ricerca delle controparti, consulenza
specializzata sui servizi all’internazionalizzazione, offerta completa di prodotti e servizi per tutte le attività con l’estero, come gestione on line di incassi e pagamenti, protezione del business all’estero, finanziamenti per importazioni, esportazioni e IDE.
Per puntare a un’efficace integrazione fra rete nazionale e rete estera le aziende di credito hanno agito in due direzioni. Innanzitutto, negli ultimi anni le banche, non meno delle imprese, hanno in molti casi avviato processi di internazionalizzazione, che consentono loro una maggiore conoscenza dei mercati esteri e la possibilità di fornire supporto e consulenza in loco alle imprese. Tali processi si esplicano sia nell’ampliamento della rete estera costituita dalle filiali e dalle banche straniere collegate e/o controllate sia nella stipula di accordi di partnership con società esterne di consulenza. Il coordinamento dell’internazionalizzazione del sistema bancario con
quella del sistema produttivo rappresenta un’importante fonte di sinergia e una leva competitiva dalle grandi potenzialità, in parte ancora inespresse. In parallelo, le banche hanno portato avanti profondi processi di ristrutturazione degli assetti organizzativi interni. Gli anni precedenti la crisi avevano visto il sistema bancario impegnato nell’applicazione di Basilea 2 e nella messa a punto di sistemi di rating all’interno delle banche maggiori. La disponibilità di indicatori sintetici e obiettivi del merito di credito ha però ridotto l’importanza del monitoraggio della clientela retail e disincentivato la raccolta di soft information da parte dei responsabili di filiale. La crisi finanziaria ha messo in evidenza i limiti di un approccio di valutazione del merito di credito focalizzato eccessivamente su indicatori quantitativi prociclici – come ad esempio gli indici di bilancio, che tra l’altro riflettono la performance passata dell’azienda – spingendo le banche, specie di maggiori dimensioni, a ripensare l’organizzazione dell’attività creditizia. Molti istituti di credito hanno quindi adottato un modello di banca commerciale territoriale, ispirato alle logiche del relationship banking. Tale tipologia si caratterizza per una durata lunga della relazione banca-cliente, un’intensità elevata della relazione e modalità operative e organizzative volte ad aumentare la prossimità dal punto di vista informativo della banca all’impresa cliente. Dall’adozione di questo modello discendono due importanti conseguenze. La prima riguarda il grado di autonomia del responsabile di filiale nelle scelte di finanziamento. Infatti, il decentramento decisionale aumenta l’incentivo del responsabile di filiale alla raccolta di informazioni mediante la conoscenza personale della clientela e riduce i costi di trasmissione delle stesse informazioni. Il secondo aspetto riguarda la capacità di combinare informazioni di natura qualitativa (soft information), derivanti dalla conoscenza diretta del cliente, con informazioni di natura quantitativa (hard information), derivanti da documenti contabili dell’impresa oppure da altre fonti esterne, come ad esempio la Centrale dei rischi.
La duplice sfida della globalizzazione e della prolungata crisi richiede per essere superata la massima sinergia possibile tra sistema delle imprese e sistema bancario. Sia le imprese che le banche hanno intrapreso negli ultimi anni strategie di internazionalizzazione volte a valorizzare i vantaggi competitivi derivanti dalla loro presenza sui mercati esteri. Inoltre molte banche hanno riorganizzato l’attività creditizia, puntando sul relationship banking e rafforzando l’integrazione tra la rete nazionale e quella estera nel supporto alle PMI sui mercati internazionali. I cambiamenti implicano però dei costi. Il relationship banking per la banca comporta un maggiore impiego di risorse qualificate per le funzioni di screening e monitoraggio, mentre per l’impresa richiede una maggiore trasparenza con l’accettazione di qualche forma di coinvolgimento da parte della banca nella definizione della propria struttura finanziaria e patrimoniale. Purtroppo un “patto” in cui le banche offrono alle imprese assistenza e consulenza in cambio di trasparenza fatica ancora ad affermarsi. Tuttavia la ricerca di un rapporto più stretto e di lungo periodo tra banca e impresa risulta cruciale per l’uscita dalla attuale prolungata fase recessiva, che non ha eguali dal dopoguerra.
L’attuale fase della globalizzazione, caratterizzata dalla frammentazione delle catene del valore, ha avuto l’effetto per molte piccole e medie imprese italiane di spostare i legami di subfornitura al di fuori del proprio territorio di riferimento, rappresentato in alcuni casi dal distretto industriale.