È da poco passato mezzogiorno quando incontro Hawas Alì, seduto su una panchina in abete nuova fiammante. I quattro piedi in ferro sprofondano nella terra inzuppata da giorni di piogge ininterrotte. Attorno a noi si estende la tendopoli di Idomeni, il più importante campo indipendente della Grecia, schiacciato a ridosso della barriera di rete e filo spinato che sigilla il confine macedone, e blocca l’esodo di migranti diretti in Nord Europa. Tra qualche settimana, il 24 maggio, con un colpo di mano il governo Tsipras invierà agenti e mezzi per lo sgombero dell’area. Oggi però, nel fitto delle tende la speranza è viva. Ciascuno dei 12 mila qui al campo sogna la propria Europa, un lavoro, la fine dell’esodo.
È da poco passato mezzogiorno quando incontro Hawas Alì, seduto su una panchina in abete nuova fiammante. I quattro piedi in ferro sprofondano nella terra inzuppata da giorni di piogge ininterrotte. Attorno a noi si estende la tendopoli di Idomeni, il più importante campo indipendente della Grecia, schiacciato a ridosso della barriera di rete e filo spinato che sigilla il confine macedone, e blocca l’esodo di migranti diretti in Nord Europa. Tra qualche settimana, il 24 maggio, con un colpo di mano il governo Tsipras invierà agenti e mezzi per lo sgombero dell’area. Oggi però, nel fitto delle tende la speranza è viva. Ciascuno dei 12 mila qui al campo sogna la propria Europa, un lavoro, la fine dell’esodo.
Con un cenno, Hawas mi invita a sedere. Trovo spazio tra lui e il figlio di una decina d’anni. Le assi in legno chiaro della panca spiccano come un forziere d’oro nel mare di fango. Nessuno sa da dove provenga, ma da queste parti una seduta simile è un bene di lusso. Davanti a noi, nel braciere delimitato da due pietre di arenaria, brucia qualche pezzo di plastica rimediato tra i rifiuti. Il miglior combustibile nei giorni di pioggia. Una caffettiera turca e un catino con l’acqua calda poggiano sulla graticola composta dal telaio in ferro di una finestra. La conversazione non è delle più facili. Hawas parla il kurmanji meridionale, una variante del curdo diffusa a Sinjar, la città irachena da cui è scappato con la famiglia nell’agosto 2014. “Siamo fuggiti da daesh (l’Isis)”, spiega, accoppiando la sua lingua, singoli vocaboli in inglese e una mimica teatrale. “Non siamo musulmani, siamo yazidi. Daesh ci avrebbe senz’altro uccisi!”. Malgrado il caos circostante, mi accorgo che nel ripetere “yazidi” – minoranza etnico-religiosa – Hawas abbassa la voce, non vuole che gli altri sentano. Si trova a 2500 chilometri dall’Iraq, in un campo affollato da migliaia di persone in fuga come lui, da guerre, violenze e miseria, ma ha paura. Non gli basta la presenza dei poliziotti greci, di centinaia di operatori umanitari e di volontari. “Dobbiamo stare attenti per evitare problemi al campo. In quelle tende, e in queste, vivono degli arabi, noi non siamo i benvenuti”, spiega, puntando il dito a destra e a sinistra. “Vogliamo andare in Germania. Siamo disposti a tutto, ad ogni lavoro, basta lasciare questo posto”. Si interrompe un istante, la moglie esce dalla minuscola tenda da campeggio piazzata a due passi, e mi porge una tazza di tè fumante. Poi Hawas torna in Iraq, a Sinjar, al califfato. Accende lo smartphone ed inizia a sfogliare la galleria, sceglie un video, in inglese, e lo avvia. È la storia del genocidio degli yazidi, seguito all’attacco dell’Isis nel nord dell’Iraq. Passerò più di un’ora seduto sulla panca d’oro a vedere filmati, a scorrere immagini di migliaia di profughi yazidi in fuga dalla ferocia di daesh. Hawas e suo figlio attendono pazienti, la moglie a due passi partecipa a suo modo. Vogliono che io sappia, che si conosca il prezzo della follia dell’uomo.
(Vedi la selezione fotografica in coda).
L’eccidio è stato perpetrato dagli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi a partire dall’agosto 2014, quando hanno conquistato gran parte della regione di Sinjar, dove si concentra la minoranza cui appartiene Hawas. Secondo i dati Onu, 6.410 yazidi sono stati rapiti dai combattenti dell’Isis nei giorni degli scontri, e ad oggi solo 2.640 di essi sono tornati in libertà. Lo scorso novembre, i peshmerga curdi sono riusciti a riprendere il controllo dell’area, grazie all’appoggio degli aerei statunitensi. Nelle mani dei jihadisti restano però 3.770 persone, in particolare donne e ragazze forzate al ruolo di schiave sessuali, poi ci sono 1400 ragazzi costretti ad apprendere le tecniche di guerriglia, e programmati per diventare kamikaze. Lo ha annunciato in una conferenza stampa Hussein Kaedy, funzionario iracheno incaricato di monitorare la tragedia degli yazidi in Iraq. Il 3 agosto, durante il secondo anniversario della presa di Sinjar da parte dello stato islamico, Kaedy ha posto l’accento sulla condizione di questi bambini, e sulla strategia disumana di daesh, che nella sua ennesima metamorfosi sembra pronto a schierare una legione di giovani uomini bomba. “Subiscono il lavaggio del cervello e vengono addestrati per diventare attentatori suicidi”, è l’appello del funzionario iracheno. Sono soprattutto bambini di età compresa tra i 6 e i 10 anni, spostati di frequente, venduti e rivenduti come merce, condotti in gran parte in Siria e costretti a condizioni di vita estreme. Sottoposti a violenza morale continua, picchiati e mandati in prima fila negli scontri a fuoco. Se si ritirano, o se tentano di arrendersi vengono puniti con privazioni e pestaggi. La maggior parte degli adulti finiti nelle mani dell’Isis è stata sterminata in concomitanza del rapimento di donne e bambini. 5000 vittime, lo dice il rapporto pubblicato nei giorni scorsi dalla commissione delle Nazioni Unite che si occupa degli abusi dei diritti umani in Siria. “Sono state trovate 33 fosse comuni contenenti i resti di persone uccise”, ha precisato Kaedy, e “circa 400.000 yazidi cacciati dalle loro case vivono ancora in campi profughi”. Alle celebrazioni per il biennio del genocidio di Sinjar si sono aggiunte anche le comunità yazidi presenti in Europa, in particolare quella tedesca, che con 100 mila persone è la più numerosa. Tenere viva la memoria è fondamentale vista la presenza di un così alto numero di yazidi ancora nelle mani del califfato. Il rischio è che molti di questi giovani di Sinjar possano rimanere uccisi nel corso delle offensive contro l’Isis in Siria, messe in atto anche dai contingenti internazionali.
Nei giorni scorsi, la Russia, più volte incolpata di commettere stragi di civili nei suoi bombardamenti con le cluster bombs, ha ricambiato l’attenzione accusando gli Stati Uniti per le “centinaia” di vittime provocate tra gli abitanti della città di Manbij, roccaforte dell’Isis assediata dai soldi curdi sostenuti dall’aviazione americana.
È da poco passato mezzogiorno quando incontro Hawas Alì, seduto su una panchina in abete nuova fiammante. I quattro piedi in ferro sprofondano nella terra inzuppata da giorni di piogge ininterrotte. Attorno a noi si estende la tendopoli di Idomeni, il più importante campo indipendente della Grecia, schiacciato a ridosso della barriera di rete e filo spinato che sigilla il confine macedone, e blocca l’esodo di migranti diretti in Nord Europa. Tra qualche settimana, il 24 maggio, con un colpo di mano il governo Tsipras invierà agenti e mezzi per lo sgombero dell’area. Oggi però, nel fitto delle tende la speranza è viva. Ciascuno dei 12 mila qui al campo sogna la propria Europa, un lavoro, la fine dell’esodo.
Con un cenno, Hawas mi invita a sedere. Trovo spazio tra lui e il figlio di una decina d’anni. Le assi in legno chiaro della panca spiccano come un forziere d’oro nel mare di fango. Nessuno sa da dove provenga, ma da queste parti una seduta simile è un bene di lusso. Davanti a noi, nel braciere delimitato da due pietre di arenaria, brucia qualche pezzo di plastica rimediato tra i rifiuti. Il miglior combustibile nei giorni di pioggia. Una caffettiera turca e un catino con l’acqua calda poggiano sulla graticola composta dal telaio in ferro di una finestra. La conversazione non è delle più facili. Hawas parla il kurmanji meridionale, una variante del curdo diffusa a Sinjar, la città irachena da cui è scappato con la famiglia nell’agosto 2014. “Siamo fuggiti da daesh (l’Isis)”, spiega, accoppiando la sua lingua, singoli vocaboli in inglese e una mimica teatrale. “Non siamo musulmani, siamo yazidi. Daesh ci avrebbe senz’altro uccisi!”. Malgrado il caos circostante, mi accorgo che nel ripetere “yazidi” – minoranza etnico-religiosa – Hawas abbassa la voce, non vuole che gli altri sentano. Si trova a 2500 chilometri dall’Iraq, in un campo affollato da migliaia di persone in fuga come lui, da guerre, violenze e miseria, ma ha paura. Non gli basta la presenza dei poliziotti greci, di centinaia di operatori umanitari e di volontari. “Dobbiamo stare attenti per evitare problemi al campo. In quelle tende, e in queste, vivono degli arabi, noi non siamo i benvenuti”, spiega, puntando il dito a destra e a sinistra. “Vogliamo andare in Germania. Siamo disposti a tutto, ad ogni lavoro, basta lasciare questo posto”. Si interrompe un istante, la moglie esce dalla minuscola tenda da campeggio piazzata a due passi, e mi porge una tazza di tè fumante. Poi Hawas torna in Iraq, a Sinjar, al califfato. Accende lo smartphone ed inizia a sfogliare la galleria, sceglie un video, in inglese, e lo avvia. È la storia del genocidio degli yazidi, seguito all’attacco dell’Isis nel nord dell’Iraq. Passerò più di un’ora seduto sulla panca d’oro a vedere filmati, a scorrere immagini di migliaia di profughi yazidi in fuga dalla ferocia di daesh. Hawas e suo figlio attendono pazienti, la moglie a due passi partecipa a suo modo. Vogliono che io sappia, che si conosca il prezzo della follia dell’uomo.
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