L’Italia e l’Europa
Se, come più volte si è detto, il nuovo Governo Letta era l’unico possibile che poteva nascere da questo Parlamento (per evitare nuove elezioni che certamente non sarebbero state risolutive) è anche vero che questo Governo rappresenta un’esperienza nuova per il nostro Paese sotto tanti punti di vista, segnando un importante cambiamento.

Giuseppe Scognamiglio, nato a Napoli il 16 luglio 1963. Diplomatico, Manager, Giornalista, Professore. Direttore della rivista eastwest
Se, come più volte si è detto, il nuovo Governo Letta era l’unico possibile che poteva nascere da questo Parlamento (per evitare nuove elezioni che certamente non sarebbero state risolutive) è anche vero che questo Governo rappresenta un’esperienza nuova per il nostro Paese sotto tanti punti di vista, segnando un importante cambiamento.
L’esperienza della cosiddetta Gross-coalition fa la sua apparizione per la prima volta in Italia. L’esperimento che si ritrova anche altrove in Europa, primo tra tutti in Germania, da noi più che una scelta è stata una necessità per non andare subito al voto nel difficile frangente che vedeva tra le altre cose la Presidenza della Repubblica in scadenza. Gross-coalition che con un paradosso tutto italiano nasce sulle quasi macerie del partito di maggioranza relativa incapace, anche a causa della legge elettorale, di estrapolare dai voti una maggioranza. Al contrario del suo predecessore che era il più anziano d’Europa, questo Governo è significativamente più giovane. Il Premier risulta tra i più giovani, coetaneo del britannico Cameron. Del resto, il Parlamento che gli ha votato la fiducia è il più giovane della storia repubblicana con un’età media di 48 anni quando al Bundestag è di 50, ed all’Assemblea Nazionale francese di 55. Anche la componente femminile dell’esecutivo Letta (7 donne su 21 Ministri) risulta spiazzante in Europa e rispecchia i numeri del nuovo Parlamento, a fronte di una media continentale di rappresentanza femminile nei Governi del 25,5%, il Governo italiano sale al 33%, ci battono i francesi con una parità assoluta tra sessi nei Ministeri. Ringiovanimento non solo di età ma anche della classe politica dirigenziale. Non si può infatti trascurare la presenza di “volti nuovi” in sostituzione dei rappresentanti politici più “noti”. Importante e preponderante è anche la componente tecnica del Governo, nonostante il Governo sia un Governo indubbiamente politico. Alcuni Ministeri chiave come quello dell’Economia e quello del Lavoro e Welfare sono in mano rispettivamente a Saccomanni, già direttor generale di Bankitalia, e al Presidente dell’Istat Giovannini. Tecnico è anche il prof. Trigilia, chiamato ad occuparsi al posto di Barca della coesione territoriale. Tecnico sulla carta sebbene di tutt’altra natura è l’incarico agli Esteri della Bonino. Le prove che questo nuovo Governo dovrà affrontare saranno molte. Troppo spesso in questi giorni ci si è concentrati sull’IMU, ma le sfide che l’Italia deve superare sono ben più strutturali. Compito della gross-coalition per l’Italia è quello di mettere mano ad una serie di riforme capaci di dare una sterzata al paese dal punto di vista della governabilità e da quello economico. I dati economici, diffusi proprio in questi giorni, non lasciano alternative, l’Europa arranca e l’Italia continua a non ripartire.
Economia:
Gli ultimi dati diffusi a chiusura del primi trimestre 2013 hanno evidenziato come questa sia la più lunga recessione vissuta dall’Eurozona da quando è stato adottato l’euro (sesto trimestre consecutivo). La disoccupazione a livello europeo è ormai al 12,1%, la Francia è in recessione tecnica (2 trimestri consecutivi di contrazione economica), la Germania cresce poco e l’Italia continua a vedere una contrazione della sua produzione e più in generale della sua economia. Il Pil dell’Eurozona nel primo trimestre ha subito una contrazione dello 0,2%, nello specifico l’Italia ha registrato un -0,5% (come la Spagna) mentre la Francia dello 0,2%. La Germania è cresciuta solo dello 0,1%.
Crescita:
L’Italia è una delle più grandi economie dell’Eurozona e, in caso di default, un bail-out non sarebbe possibile: il PIL italiano è circa il 17% del PIL complessivo dell’Eurozona (quello greco è solo del 2,5%) ed è di questi giorni, l’annuncio della Banca d’Italia di un nuovo record negativo d’indebitamento che a marzo è salito a € 2.034 mld. (la somma dei fondi ESM e EFSF – i due Strumenti europei di gestione delle crisi è pari solo a 750 miliardi di euro). Al contrario di altri paesi europei fortemente indebitati (come la Grecia o il Portogallo), l’Italia nonostante l’elevato debito pubblico può comunque vantare un’enorme ricchezza privata. Il patrimonio privato delle famiglie italiane supera di ben 4,5 volte l’importo dell’intero debito pubblico.
Grazie alle misure di austerità che sono state messe in atto dall’estate del 2011, l’Italia (nonostante la debole performance economica) è riuscita, insieme alla Germania, a compiere passi importanti nel gravoso percorso di aggiustamento dei conti pubblici, portando il deficit sotto il valore di riferimento del 3% del PIL, mentre ad altri Paesi, come la Francia ad esempio, rimane ancora parecchia strada da fare. L’Italia ha registrato un deficit di bilancio sul PIL del 3% nel 2012, mentre, per esempio, nello stesso anno la Francia ha registrato un saldo di bilancio negativo del 4,8%, la Spagna dello 7%, il Portogallo dello 4,9% e, al di fuori dell’Eurozona, il Regno Unito ha registrato un deficit sul PIL pari al 6,6%. Le stime della Commissione che appunto prevedono che il deficit italiano già quest’anno si assesti al 2,9%, e nel 2014 diminuisca al 2,5% confermano come l’Italia sia ben al di sotto del famoso parametro di Maastricht del 3% del PIL e quindi sulla buona strada per ottenere la chiusura della procedura per disavanzo eccessivo aperta dalla Commissione europea nel 2009 contro il nostro Paese. L’Italia deve poter investire sulla sua produttività. Riacquistare competitività tramite riforme strutturali è infatti un elemento imprescindibile affinché il nostro Paese possa prendere una boccata d’ossigeno e riesca in parallelo a riassorbire una parte del tasso di disoccupazione (stimato al 12,2% nel 2014). Negli ultimi dieci anni la crescita della produttività italiana è stata mediamente dello 0,4% all’anno contro il 2,8% dell’Olanda, il 2,5% della Francia, l’1,8% della Germania, l’1,5% della Spagna, il 3% del Regno Unito, del 3,3 % del Giappone, del 5,2 % degli Usa. Mentre nei Paesi dove c’è stato un aumento della produttività del lavoro ciò si è tradotto in un guadagno di competitività, con impatti positivi sulla bilancia delle partite correnti, in Italia, dove la produttività del lavoro non è aumentata nell’ultimo decennio, abbiamo avuto una crescita del PIL pressoché anemica. La debole performance è da imputare a vari aspetti strutturali tra cui la limitata concorrenza, specialmente nei settori non-commerciabili, un contesto operativo non favorevole allo sviluppo delle aziende e le inefficienze presenti nel settore pubblico (come l’evasione fiscale e un sistema giudiziario ancora troppo lento) e l’elevata pressione fiscale. Questo ha negativamente influito sul contesto imprenditoriale, aumentando i costi per i settori che hanno invece necessità di competere a livello globale erodendone la competitività. Non sorprende dunque che l’innovazione e la penetrazione degli IDE siano stati limitati, facendo perdere quote di mercato alle esportazioni italiane. Alcuni esempi degli effetti delle mancate riforme in Italia nel settore della concorrenza e del mercato del lavoro appaiono significativi. Ad esempio il costo dell’ energia elettrica in Italia rimane uno dei più alti d’Europa superando del 50% la media europea, specialmente per le aziende . Nel mercato del lavoro, per citare altri esempi, i giovani di 15-24 anni riescono a trovare lavoro con una probabilità solo del 20%, contro una percentuale del 35% nella zona Euro. L’FMI stima che la realizzazione simultanea delle riforme riguardanti il mercato dei prodotti e del lavoro potrebbe aumentare il PIL reale italiano del 5,7 % dopo cinque anni dall’implementazione delle riforme e del 10,5 % nel lungo termine. Il costo del lavoro per unità di prodotto, per fare un esempio potrebbe diminuire, di quasi il 4,5 % dopo 5 anni, visto che l’aumento della produttività del lavoro riuscirebbe più che a compensare l’aumento dei salari. Ecco perché il nuovo Governo italiano deve assolutamente adottare misure efficaci per sostenere la crescita e l’occupazione, pur restando su un sentiero di finanza pubblica sostenibile.
Letta fin dall’inizio ha sottolineato con chiarezza l’orientamento pro-Europa del Governo: “la strategia europea è il pilastro principale del nostro Governo appena nato”, garantendo che l’Italia rispetterà I patti e spingerà per una maggiore unione economica e politica, rilanciando il progetto di creazione degli “Stati Uniti d’Europa”. Questo però non pregiudica l’esigenza di dover trovare il modo di far ripartire l’Europa anche pensando ad una nuova interpretazione dei patti in funzione del particolare momento storico vissuto. A testimoniarlo il suo tour presso le Cancellerie europee che con “la mossa del cavallo” ha chiesto, dopo la cancellazione della procedura d’infrazione nei confronti del nostro paese, di applicare la golden rule, ovvero la cancellazione dal deficit sia delle spese per infrastrutture sia quelle di coesione sociale. L’obiettivo è mostrare ai cittadini l’Europa “come un’UE che porta notizia positive, che dà calore, risposte”. In caso contrario in discussione non c’è più solo la tenuta economica dell’Unione, ma anche quella sociale. Aldilà dei dati economici (vd punto precedente) anche i dati sulla disoccupazione sono molto preoccupanti: 6 mln di disoccupati in Spagna (record da quando iniziano le serie storiche), 3,2 mln in Francia, quasi 3 mln in Italia (1,2 mln creati solo negli ultimi 5 anni). In Spagna oltre 240.000 persone hanno perso il lavoro nei primi 3 mesi del 2013 (tax di disoccupazione al 27,1%), in Italia il tax è all’11,5% ma raggiunge il 38,5% se si guarda solo alla disoccupazione giovanile. Iconsumi rimangono contratti e anche gli investimenti. Letta non può non prendere atto che in Italia nonostante le politiche di austerità, il debito pubblico continua a manifestare un andamento preoccupante passando dal 120% del Pil nel 2011 a oltre il 130% stimato nel 2013. E’ di questi giorni, inoltre, l’annuncio della Banca d’Italia di un nuovo record negativo d’indebitamento che a marzo è salito a € 2.034 mld. L’uscita dalla procedura sul deficit appare fondamentale per ottenere margini di spesa più espansivi. La data chiave sarà il prossimo 29 maggio quando la Commissione europea dovrà decidere. Se tutto si concluderà in modo positivo il nostro Paese potrà finalmente iniziare ad usare maggiore flessibilità nelle politiche di bilancio, sfruttando la più ampia disponibilità di Bruxelles verso le misure per il rilancio della crescita e l’occupazione (visto che l’austerità si è rivelata troppo spesso recessiva). E’ chiaro quindi che l’uscita dalla procedura sul deficit appare fondamentale per ottenere margini di spesa più espansivi. Anche perché l’aggravamento della recessione e i drammatici record nella disoccupazione giustificano la richiesta di maggiore flessibilità nelle politiche di bilancio. L’unico dato positivo di questi giorni è quello sull’inflazione, scesa in aprile all’1,1%, ma che dall’altra parte può costituire un’ulteriore prova del crollo dei consumi e della necessità di misure urgenti di rilancio dell’economia. I profeti dell’austerità hanno perso per strada i teorici, mentre Oli Rehn insisteva nel citare l’ormai famoso paper di Rogoff e Reinhart sulla correlazione debito pubblico/PIL dove dopo oltre il 90% si avrebbe bassa crescita, dall’università del Massachusets hanno dimostrato come lo studio abbia dei vizi di forma non indifferenti o addirittura ci siano degli errori grossolani come la selezione mirata dei paesi nel campione di dati o peggio un errore di codice nel foglio di calcolo excel, tanto da far parlare di excelgate. L’errore, è stato ammesso dai due economisti sul New York Times e sul Financial Times. Aldilà del singolo caso, il fatto che alto debito sia sempre uguale a meno crescita è oggi messo in discussione dai fatti. L’eccesso di austerità sta portando alla depressione diversi Stati. Nonostante i tagli alla spesa pubblica e l’aumento delle tasse, il debito cresce. L’errore non sta nell’applicare una teoria economica, ma piuttosto nell’applicarla come una scienza esatta, aldilà del buon senso e dell’osservazione della realtà. In questo senso le parole di Letta “l’’austerità non sia più la panacea ai problemi economici dell’Europa” sono state un chiaro invito verso un cambio di direzione. Sono ben consapevole degli elementi di matrice culturale che spingono la Germania al rigore fiscale. Ma se da un lato nella crisi attuale è importante proseguire sul cammino di consolidamento fiscale e, altrettanto importante è che i rientri dei deficit avvengano ad un ritmo ed ad una velocità adeguata. Diversamente un consolidamento troppo rapido avrebbe l’effetto di soffocare l’economia. Anche la Banca Mondiale ha dichiarato che all’inizio è stato sottovalutato l’impatto recessivo delle misure di austerità. Questo problema è particolarmente rilevante per un Paese, come l’Italia, colpito da una profonda recessione economica (Unicredit prevede un calo del PIL pari all’ -1,1% nel 2013, che segue al rallentamento del -2,4% registrato nel 2012). La Germania teme che un allentamento crei un precedente innescando una situazione di azzardo morale che disincentiva la disciplina fiscale tra i paesi altamente indebitati. Tuttavia, al fine di sostenere il commercio in Europa, i paesi che hanno conti pubblici in ordine e surplus delle partite correnti, come la Germania, dovrebbero introdurre politiche più espansive, aumentando la loro domanda interna. Infatti, le politiche restrittive implementate contemporaneamente in tutti i paesi dell’Eurozona, rischiano di portare tutti in un gioco a somma zero, compresa Berlino. Se infatti tutti gli stati continueranno a ridurre i loro disavanzi pubblici senza un aumento compensativo dei consumi tedeschi, la domanda interna dell’Europa finirà per subire, come già accade peraltro, una forte flessione e con essa anche le esportazioni tedesche ne risentirebbero. La Germania dovrebbe capire che un’unione monetaria “più tedesca” orientata al rigore fiscale dove gli Stati partecipanti non generino forti differenze nelle loro bilance commerciali potrebbe paradossalmente portare la Germania stessa ad essere “meno tedesca” inducendola a rinunciare in parte al modello economico trainato dalle esportazioni e che è prosperato anche grazie ai paesi in deficit che in questi anni hanno acquistato l’export tedesco. Il rischio come ben sottolineato dal Premier Letta è che l’eccesso di austerità porti ad una crisi di legittimità dell’Unione. A questo proposito il sondaggio condotto proprio in queste settimana dall’americana Pew Research evidenzia bene come la crisi abbia prodotto importanti fratture in tutta Europa anche a livello sociologico. Come sia necessario recuperare fiducia, soprattutto in Italia. Il nostro grado di affidabilità è considerato il più basso d’Europa dai tedeschi, spagnoli e dagli italiani stessi. La Germania è invece considerata la più affidabile da 7 Paesi su 8, ma anche la più arrogante per 5 Paesi (tranne Germania, Francia e UK). L’Europa è tutt’altro che unita anche nei sondaggi, non a caso il rapporto è stato titolato “ Il nuovo malato d’Europa: l’Unione Europea”. Tra il 2007 ed oggi gli italiani con un’opinione favorevole o molto favorevole dell’UE sono scesi del 20% al 58%, gli spagnoli dall’80% al 46%, i francesi dal 62% al 41%. Paradossalmente l’unica popolazione ad essere diventata più favorevole è quella ceca. Per uscire dalla crisi e risanare queste fratture culturali è vitale che lo sforzo per una soluzione comune provenga da ambo le parti. Se da un lato i paesi altamente indebitati dovranno oltre al consolidamento fiscale impegnarsi sul fronte delle riforme strutturali, affinché le loro economie possano tornare su un cammino di crescita, anche la Germania da parte sua dovrà concedere maggiore flessibilità. D’altronde se ai Paesi del Sud si chiede solo rigore il rischio è che si inneschi un turbine di deflazione e indebitamento, visto che il processo di riduzione del debito verrebbe ostacolato, perché se i prezzi calano il peso reale del debito aumenta. Questo ci porta a concludere che insieme alla disciplina fiscale, la crescita economica (aiutata sia dalle riforme strutturali sia da qualche apertura da parte tedesca) deve dunque diventare il nuovo paradigma europeo. E forse una volta che l’Eurozona ritornerà sui un sentiero di crescita si potrebbe disporre di quel capitale politico necessario per quelle riforme strutturali che rafforzino l’Unione monetaria una volta per tutte , facendola uscire da questo lungo e turbolento periodo.
Il 2012 è stato un annus horribilis per il mattone italiano ormai distante anni luce dai picchi del 2006. Il crollo del mercato ha riportato il volume delle transazioni sui livelli degli anni ’80. Le abitazioni vendute in Italia nel 2012 sono state appena 444 mila, un livello che non si vedeva dal 1985. Secondo gli ultimi dati, nel 2012 le compravendite sono calate del 25,8%. Il settore ha quindi perso più di € 26 mld. Il valore complessivo delle transazioni immobiliari si è attestato a €74,6 mld. Molto pesante il calo nell’ultimo trimestre: le compravendite sono scese del 30,5%. Valori molto lontani dai massimi del 2006. A livello settoriale il calo maggiore si è verificato nel terziario con una flessione del 26,6%. Molto male anche il commerciale con un calo del 24,7%. Il produttivo ha invece registrato un calo del 19,7%. Comprendendo tutti i settori le vendite sono state pari a 993.339 unità. La ripresa degli scambi intorno alle 500 mila transazioni non è prevista prima del 2014. Il calo dei prezzi degli immobili nel 2012 è stato mediamente del 5%. Unica notizia positiva: dopo un anno e mezzo di calo, nel secondo semestre 2012 è migliorato il dato sulla quota di famiglie che dispone di un reddito sufficiente a coprire almeno il 30% del costo annuo del mutuo per l’acquisto di una casa, oggi di poco superiore al 50% (13 mln di famiglie circa). Problematiche comunemente evidenziate: per anni tassazione pesanti sul patrimonio immobiliare; tassi d’interesse alti. Più di recente: crisi economica e contrazione del credito da parte delle banche (a causa di mancanza di liquidità a medio-lungo termine; aumento rischiosità per le perdite associate ai mutui; clima di incertezza in Italia e in Europa che ha portato alla riduzione della domanda). A questo si deve aggiungere che in Italia si è costruito troppo 1 milione e 200 mila abitazioni sono invendute mentre mancano gli alloggi per l’edilizia agevolata. Contrazione dell’erogazione dei mutui passata da €34,3 mld (2011) a €19,6 mld (2012). Dal 1998 ad oggi la produzione industriale è passata da 100 a 85, lo stock di credito da 100 a 165. Dunque il problema non è la disponibilità di credito ma la struttura industriale del paese. Con un’economia che dal 2009 ad oggi ha visto complessivamente calare il prodotto interno in maniera molto più marcata rispetto agli altri paesi europei, il calo della domanda di credito da parte di famiglie e imprese, soprattutto la componente a medio lungo periodo destinata agli investimenti, ha sicuramente svolto un ruolo maggiore nello spiegare la diminuzione degli impieghi rispetto ad eventuali fenomeni di razionamento del credito che ci possono essere stati soprattutto nel momento più acuto della crisi di liquidità che ha colpito le banche italiane (fine 2011).
Se, come più volte si è detto, il nuovo Governo Letta era l’unico possibile che poteva nascere da questo Parlamento (per evitare nuove elezioni che certamente non sarebbero state risolutive) è anche vero che questo Governo rappresenta un’esperienza nuova per il nostro Paese sotto tanti punti di vista, segnando un importante cambiamento.
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di geopolitica
Abbonati per un anno alla versione digitale della rivista di geopolitica