Il diciannove dicembre scorso, il deputato del Movimento cinque stelle Gianluca Rizzo – assieme ad altri firmatari sempre dello stesso partito – ha presentato un’interrogazione parlamentare a «risposta scritta» su una presunta vendita di armi italiane alla Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare centrale nel 1989.
Secondo quanto si legge nello scritto, ci sarebbe stata una fornitura di cannoni navali compatti Oto Breda da 76 mm, prodotti dalla Oto Melara, «una controllata di Finmeccanica di cui l’azionista di maggioranza è il Governo, nello specifico il Ministero dell’Economia e delle Finanze». Questi cannoni, sono presenti su alcune unità della marina del Paese asiatico e in particolare, si legge nel documento, «sulla fregata Aung Zeya e sulle tre corvette classe Anawrahta di Myanmar così come riportato di recente dal sito di informazione della rivista IHS Jane’s e documentato da diverse foto delle due corvette UMS Anawrahta (771) e UMS Bayintnaung (772) e da altre fonti, tra cui il sito di informazione militare Global Security».
Qual è il problema se un’azienda italiana fa affari all’estero? Il problema c’è. Come riportato dai grillini nell’interrogazione parlamentare, verso la Birmania «c’è un embargo di armi e sistemi militari decretato dal Consiglio dell’Unione europea già dal 1991 che è stato confermato nel mese di aprile 2013 e prorogato fino all’aprile 2015».
La decisone 2013/184/PESC del Consiglio, sottoscritta il 22 aprile del 2013 – e prorogata il 14 aprile 2014 – spiega che, «alla luce degli sviluppi in Myanmar/Birmania e al fine di incoraggiare il proseguimento di cambiamenti positivi, è opportuno revocare tutte le misure restrittive, ad eccezione dell’embargo sulle armi e dell’embargo sul materiale che potrebbe essere utilizzato a fini di repressione interna». E ancora, nell’articolo uno si legge: «Sono vietati la vendita, la fornitura, il trasferimento o l’esportazione al Myanmar/Birmania di armamenti e materiale connesso di qualsiasi tipo, comprese armi e munizioni, veicoli e materiale militari, materiale paramilitare e relativi pezzi di ricambio, nonché materiale che potrebbe essere utilizzato a fini di repressione interna, da parte di cittadini degli Stati membri o in provenienza dal territorio degli Stati membri ovvero mediante navi o aeromobili battenti bandiera degli stessi, siano tali armamenti o materiali originari o non di detto territorio».
Ma non è tutto. Della presunta vendita non c’è traccia. «Nelle 15 Relazioni pubblicate dal Consiglio UE – si legge nel documento depositato a Montecitorio da Gianluca Rizzo – non figura alcuna autorizzazione di sistemi militari da parte dell’Italia al Myanmar e non figura nemmeno in alcuna delle relazioni che i vari governi italiani che si sono succeduti dal 1990 al 2013 hanno inviato al Parlamento. In entrambe i documenti, se queste esportazioni sono state autorizzate ed effettuate dall’Italia anche in ottemperanza all’embargo, dovrebbero essere in qualche modo riportate così come l’eventuale concessione di licenze di fabbricazione e trasformazione o adattamento di materiali e mezzi (militari) in loco o a Stati terzi».
Un’ipotesi possibile potrebbe essere quella che i cannoni navali Oto Breda compatti da 76 mm siano stati esportati dall’India. Non a caso nell’interrogazione parlamentare troviamo scritto: «Come riporta un articolo pubblicato sul sito internet del mensile indiano Force a commento della visita di una delegazione della Marina militare indiana alle varie aziende del gruppo Finmeccanica nel novembre del 2012, Oto Melara ha un accordo aperto con la Bharat Heavy Electricals Ltd (Bhel) che avrebbe la licenza di produrre questi cannoni già dal 1995». E ancora: «Il mensile indiano scrive che secondo i funzionari della Oto Melara, l’accordo con Bhel prevede anche la possibilità di esportazione di questi cannoni». Ma anche questa, ad ora, rimane solo un’ipotesi.
Il documento depositato dai grillini chiede di «chiarire la presenza dei cannoni navali Oto Melara sulle corvette e navi militari della Repubblica dell’Unione del Myanmar». Chiede «se la fornitura di tali cannoni navali alla Marina militare del Myanmar sia stata effettuata dall’azienda indiana Bharat Heavy Electricals Ltd o da altre aziende su esplicita autorizzazione da parte dei Ministeri degli affari esteri e della cooperazione internazionale e della difesa e delle autorità competenti della Repubblica italiana». E soprattutto, si legge nel finale dell’interrogazione parlamentare, si chiede «il motivo della mancanza delle dovute informazioni nelle relazioni governative e all’Unione europea relative a esportazioni e licenze di produzione, in loco o a terzi, qualora siano state effettuate dal nostro Paese ai sensi della legge n. 185 del 9 luglio del 1990».
Per ora tutto tace. Anche la Farnesina, che abbiamo provato a contattare, non ha fornito alcuna risposta. Intanto, però, in Birmania continua la repressione da parte del governo verso la popolazione e verso le diverse etnie che compongono il difficile mosaico del Paese. Le ultime violenze risalgono alla fine di dicembre, quando, in nome del business, nei pressi della miniera di proprietà cinese Letpadaung, nella città nord-occidentale di Monyowa, una donna è stata uccisa con un colpo di pistola alla testa mentre cercava di contrapporsi all’esproprio della propria casa. E altri scontri armati sono in corso nello Stato Karen e nello Stato Kachin, dove le etnie sono in guerra contro il governo birmano per richiedere la propria autonomia.
@fabio_polese
Il diciannove dicembre scorso, il deputato del Movimento cinque stelle Gianluca Rizzo – assieme ad altri firmatari sempre dello stesso partito – ha presentato un’interrogazione parlamentare a «risposta scritta» su una presunta vendita di armi italiane alla Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare centrale nel 1989.