Sulla scacchiera del Grande Gioco in corso in Medio Oriente il fronte sciita guidato dall’Iran appare in forte ascesa in diversi scenari – dall’Iraq alla Siria, dallo Yemen al Libano, dalle relazioni diplomatiche a quelle commerciali -, e tuttavia lo schieramento sunnita che fa capo all’Arabia Saudita sta forse per piazzare un’importante vittoria politica e di immagine: un successo diplomatico sulla questione israelo-palestinese, la battaglia ideale più importante per le opinioni pubbliche musulmane. Negli ultimi pochi anni Riad si è mossa con astuzia, spesso nel cono d’ombra di altri attori – ora l’Egitto, ora la Francia, ora gli Usa, ora altri – con interessi convergenti, per portare in posizione strategica le proprie pedine. Ora, parrebbe, è arrivato il momento per colpire.
L’occasione per Riad si presenta grazie al fallimento di un proprio alleato, e fondamentale partner commercio di armamenti: la Francia. Parigi aveva infatti preso l’iniziativa (approfittando della scarsa presenza degli Usa, concentrati sulla campagna elettorale) e annunciato una conferenza internazionale per il 30 maggio con oggetto la questione israelo-palestinese, a cui tuttavia in un primo momento non avrebbero partecipato le due parti interessate. Se da parte palestinese la proposta francese era stata ben accolta, non altrettanto aveva fatto Tel Aviv. Israele infatti temeva la mancanza di imparzialità di Parigi, e anche Usa e Russia non sembravano convinte. L’iniziativa rischiava di nascere morta ma il 17 maggio vengono prese due decisioni per salvarla e anzi rilanciarla: prima la Francia annuncia il rinvio “all’estate” della conferenza (ufficialmente perché il Segretario di Stato americano John Kerry non avrebbe potuto partecipare ma di fatto guadagnando tempo), poi il presidente egiziano al Sisi – altro fondamentale alleato di Riad, a cui di recente ha ceduto due isole strategiche nel Mar Rosso e da cui dipende economicamente per mantenere il potere nel Paese – entra in scena ritagliando per sé, pur nella cornice dell’iniziativa francese, il ruolo di mediatore tra Israeliani e Palestinesi. “C’è una concreta possibilità di stabilire una pace reale, la sicurezza e la stabilità”, ha dichiarato al Sisi nella città meridionale di Assiut. “Se c’è l’accettazione vera degli sforzi arabi e internazionali – ha aggiunto – e se voi avete fiducia in me”. Stavolta il consenso è unanime.
“Israele è disposto a partecipare assieme all’Egitto e ad altri Paesi arabi per portare avanti il processo diplomatico e la stabilità nella regione”, dichiara il premier israeliano Netanyahu, che aggiunge “l’apprezzamento per l’operato di al Sisi”. Concorda Isaac Herzog, leader dell’opposizione, che ritiene le dichiarazioni del presidente egiziano “un’opportunità storica”. Anche dal lato palestinese si registraun forte apprezzamento. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (del partito Fatah), ha dichiarato che l’Egitto è sempre stato “un’ancora” per i paletinesi, da cui si aspetta “un grande aiuto”. E anche Hamas ha espresso il proprio sostegno per “trovare un accordo nazionale”. Le parole di apprezzamento per l’iniziativa egiziana sono la cartina tornasole del (precario) equilibrio strategico che si è andato creando negli ultimi anni in Medio Oriente.
L’Egitto è stato storicamente – dopo gli accordi di Camp David del 1978 – uno dei pilastri della sicurezza di Israele. La parentesi del governo islamista e filo-Hamas di Mohammed Morsi – deposto dal golpe di al Sisi – è stata chiusa e la vicinanza, per non dire la dipendenza, del Cairo con Riad in questo momento non è affatto sgradita a Tel Aviv. L’Arabia Saudita e Israele sono andati infatti rafforzando i propri legami negli ultimi anni, da quando la decisione degli Stati Uniti di far emergere l’Iran dall’isolamento internazionale (e dalle sanzioni) ha di fatto allineato gli interessi strategici dei due Paesi. L’Egitto può quindi legittimamente proporsi come interlocutore per Israele, e gli viene infatti tributata una maggior fiducia che non alla Francia. Ma l’alleanza con Riad porta in dote ad al Sisi anche una tela di rapporti con le formazioni palestinesi di grande valore strategico.
Se infatti il Cairo ha da sempre mantenuto, nonostante gli accordi di pace con Israele, buoni rapporti con l’autorità palestinese e con al Fatah, non altrettanto si può dire di Hamas. Imparentata con la Fratellanza Musulmana (considerata dal Cairo un’organizzazione terroristica) e spesso in contrasto con l’Egitto per il blocco del confine con Gaza, l’organizzazione palestinese è stata spesso (e soprattutto dopo la caduta di Morsi) oggetto di accuse di complicità coi terroristi del Sinai (oggi vicini all’Isis). Non a caso, si può forse dire alla luce dei recenti sviluppi, la situazione si era cominciata a distendere già a marzo con una visita di cinque giorni dei dirigenti di Hamas al Cairo. Forse Riad già propiziava la mossa del proprio alfiere egiziano.
Storicamente più vicina ad al Fatah, l’Arabia Saudita ha aumentato i propri contatti con Hamas soprattutto in seguito all’esplosione della guerra civile siriana nel 2011. In quell’occasione, dovendo scegliere se appoggiare i suoi protettori sciiti (la Siria di Assad e l’Hezbollah libanese, longa manus dell’Iran) o i ribelli sunniti, nel 2012 Hamas si è schierata coi secondi, spostando la propria dirigenza dalla Siria al Qatar (all’epoca molto attivo nel sostenere la Fratellanza Musulmana nelle varie Primavere arabe). Perso l’appoggio di Teheran (che poi avrebbe comunque tentato un riavvicinamento dopo la guerra di Gaza del 2014), l’organizzazione islamista palestinese perde poi anche quello egiziano (in seguito al golpe di al Sisi nel 2013) e vede ridursi quello della Turchia (impegnata nella guerra in Siria e distratta dalla questione curda) e del Qatar (che a fine 2014 esce sconfitto da uno scontro diplomatico con Riad, scontenta dell’attivismo diplomatico del piccolo vicino). Col nuovo Re, Salman, nel 2015 l’Arabia Saudita comincia ad avvicinarsi ad Hamas e iniziano a circolare voci su una trattativa segreta che Riad starebbe propiziando tra l’organizzazione islamista palestinese e Israele. Finora non erano emersi risultati significativi ma questa rete diplomatica tessuta negli ultimi mesi dai Saud può ora essere messa a frutto nelle trattative future.
Eventuali progressi, se non un successo, sarebbero nell’interesse dei principali attori coinvolti nella trattativa: le fazioni palestinesi si legittimerebbero di fronte a un’opinione pubblica esasperata (come dimostra la cosiddetta Intifada dei coltelli) e potrebbero contare sull’apertura del valico tra Gaza e l’Egitto – ad oggi ancora oggetto di trattative – e forse sulle risorse economiche di Riad, per migliorare la situazione; Netanyahu potrebbe ottenere un risultato storico (forse uno dei motivi per cui in Israele si discute di un possibile governo di unità nazionale coi laburisti di Herzog); al Sisi otterrebbe una legittimazione interna e internazionale molto forte; la Francia espanderebbe ulteriormente la sua influenza in Medio Oriente; e l’Arabia Saudita potrebbe intestarsi una enorme vittoria di immagine, anche ai danni del rivale sciita iraniano. Teheran – se avesse intenzione di tentare un sabotaggio dell’iniziativa – sembra costretta a combattere in salita questa battaglia, essendo già molto impegnata in Iraq e in Siria (dove sta anche utilizzando l’Hezbollah libanese), e anche la Fratellanza Musulmana – altro sconfitto da un eventuale accordo patrocinato dal Cairo – attraversa un momento di isolamento e debolezza. Ma il rischio, sempre elevato nella questione israelo-palestinese, è che la buona predisposizione dei protagonisti e il quadro geopolitico favorevole comunque non bastino. I dettagli di un qualsiasi accordo, dove la saggezza popolare vuole si nasconda il diavolo, possono sempre riaccendere gli odii e i rancori seminati tra i due popoli per decenni.