
Puntuale come la pioggia di aprile, la Grecia è tornata a far parlare di sé per la sesta primavera consecutiva. E come al solito, si tratta di quel mix di promesse mancate, riforme strutturali non sufficienti e dogmatismo delle istituzioni europee. Un libro già scritto, un finale prevedibile, un Paese distrutto e incapace di rialzarsi. Questa era la Grecia nel 2010, questa è la Grecia oggi.
Da mesi si sta combattendo una guerra transatlantica sul destino di Atene. Da un lato c’è il Fondo monetario internazionale (Fmi) guidato da Christine Lagarde. Dall’altro, il presidente dell’Eurogruppo, il consesso dei ministri delle Finanze dell’area euro, Jeroen Dijsselbloem. In mezzo, che osservano, la Grecia e lo European stability mechanism (Esm). Durante l’ultimo meeting dell’Eurogruppo, è emerso ciò che era noto da tempo a Washington. C’è un buco da colmare. L’ennesimo. Già durante gli incontri primaverili del Fondo si era discusso dell’imminente revisione del programma di riforme strutturali promesso da Atene. E parlando con East, un funzionario del Fmi non aveva nascosto il suo disappunto. «Il possibile gap fiscale nell’attuazione del programma, su base complessiva, è di circa 8 miliardi di euro, secondo le nostre proiezioni», disse. Vale a dire che Atene non è ancora riuscita a introdurre misure strutturali – promesse lo scorso anno dal premier Alexis Tsipras dopo una estenuante e drammatica estate – per circa 8 miliardi di euro.
La situazione non è rosea, ma potrebbe peggiorare. «La linea del Fmi è sempre la solita: la Grecia a oggi non ha un’economia sostenibile, né un debito sostenibile. Occorre quindi che si pensi a un alleggerimento del debito», spiega un’altro funzionario dell’istituzione di Washington. Una visione che è stata confermata più volte dalla Lagarde, anche a margine degli Imf Spring Meetings di metà aprile. Eppure, su questo punto l’Europa non vuole discutere. O meglio, non prima dell’applicazione di parte dell’attuale programma di sostegno.
Come ha ricordato Dijsselbloem pochi giorni fa, si potrà discutere un alleggerimento del debito solo a partire dal 2018, e comunque dopo il completamento di due riforme che ancora mancano all’appello, la nuova legge bancaria e un fondo ad hoc per le privatizzazioni. Stesso discorso per lo sblocco della prossima tranche di aiuti, 5,4 miliardi di euro, che sono subordinati a queste due riforme. E in molti analisti economici dell’eurozona puntano il dito contro la Germania. Le posizioni del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble e del suo capo economista Ludger Schuknecht avrebbero spinto l’Eurogruppo a usare il pugno di ferro contro Atene, escludendo ogni genere di alleggerimento del debito. «Il problema non è solo della Germania, ma di tutto l’Eurogruppo, il quale non comprende a pieno che la Grecia continua a essere insostenibile nel lungo periodo», continua il funzionario del Fmi.
Da Bruxelles, però, la vedono diversamente. Come spiega uno degli sherpa dell’Euro working group (Ewg), il gruppo tecnico di lavoro dell’Eurogruppo guidato da Thomas Wieser, «la voce dei ministri finanziari dell’euro area è univoca, e stiamo già lavorando a un eventuale apertura alle proposte del Fmi, anche sul fronte dell’alleggerimento del debito della Grecia». Una parziale distensione in vista? Possibile, ma tutto dipende dalla volontà politica di Atene. «Nessuno vuole una spaccatura del rapporto con il Fmi, ma allo stesso tempo non si desidera che il programma di sostegno non sia completato come previsto», continua lo sherpa.
In altre parole, tutto dipende – ancora una volta – da Atene. E non è positivo, né nel breve né nel lungo periodo. Il premier Tsipras rischia due cose, soprattutto. La prima è che il Paese torni a rischio default e che l’accordo con i creditori internazionali non vada in porto. La seconda, persino più probabile, è che, attorno a lui, si crei l’aurea shakesperiana del “molto rumore per nulla” e che sempre più elettori in Grecia inizino a chiedersi che differenza ci sia fra il suo governo e quello precedente, di salvezza nazionale, guidato da Antonis Samaras.
Fino a questo momento la giovane promessa della politica ellenica, vicina all’essere definita “non mantenuta”, ha solo potuto fare buon viso e cattivo gioco e assecondare le richieste dei creditori internazionali. A essere onesti, quasi tutte. L’ex ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, è tornato alla carriera accademica e gira il mondo, partecipando a conferenze per esporre le sue proposte, che però non hanno trovato cittadinanza in sede europea. A fare il lavoro sporco è rimasto Euklides Tsakalotos, sulla carta anche più radicale, ma che ha capito più di tutti una cosa: i margini di contrattazione sono scarsi e l’uscita dall’euro significherebbe la rovina per il Paese. Si è dovuto rassegnare a quest’idea anche Tsipras. Lui, che doveva determinare un nuovo corso, non solo sta attuando politiche verso l’Europa in tutto e per tutto simili a quelle del predecessore, Samaras, deve anche subire l’ironia del neoeletto presidente di Nea Dimokratia, Kyriakos Mitsotakis. E potrebbe peggiorare presto, dato che secondo fonti governative Tsipras a giugno lancerà il congresso del suo partito, Syriza, a cui farà seguito un rimpasto di governo.
Il giovane leader conservatore si sfrega le mani all’idea di nuove elezioni, alle quali, quando saranno, Tsipras arriverà stremato, dopo aver ampiamente disatteso le aspettative del popolo greco e i conservatori pronti a raccogliere i frutti di scelte impopolari prodotte dal loro peggiore nemico. Questo si tradurrà nell’ennesimo ritardo all’attuazione del programma di sostegno e in una ulteriore riduzione dello spazio negoziale sia con l’Ue sia con il Fmi.
Una situazione, quella attuale – stallo con Bruxelles ed esplicita debolezza politica interna – nella quale si è cacciato il primo ministro in persona, dopo aver fatto carte false pur di andare al voto anticipato nel gennaio 2015. Tsipras era convinto di poter scardinare il meccanismo europeo, forse troppo influenzato dal cerchio magico di economisti che gli girava attorno, che prometteva rivoluzioni e ha ottenuto una triste realtà. Oggi, dopo un referendum in cui chiedeva ai greci di tirarsi la zappa sui piedi da solo e dopo un’elezione a settembre dove ha vinto per mancanza di alternative, rischia di essere considerato, dentro e fuori la Grecia, come un grande bluff.
La sensazione – sull’asse Washington, Bruxelles, Atene – è che manchi la volontà politica per riportare il Paese sui binari perduti dopo l’Olimpiade del 2004. «Il problema è che nonostante gli sforzi dei creditori internazionali per rendere competitiva la Grecia, sono gli stessi politici greci che non vogliono renderla competitiva», dice non senza rammarico un funzionario della DG ECFIN della Commissione europea. Anche in caso di nuove elezioni, cosa cambierà? La risposta, purtroppo, è facile da intuire. La conosciamo da sei anni e mezzo.