Dopo mesi di indiscrezioni e smentite, il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan, Nicholas Haysom, ha ammesso la presenza dello Stato Islamico (SI) nel Paese. Una presenza per ora contenuta, ma cionondimeno preoccupante, se si considera la precarietà del quadro di sicurezza afghano.
Le voci relative a un tentativo di penetrazione nel Paese e nel resto della regione da parte del gruppo guidato da Abu Bakr al-Baghdadi si rincorrono dalla scorsa estate. Già a settembre, nella provincia di Ghazni erano stati segnalati scontri tra forze di sicurezza regolari e presunti militanti del SI, notizia poi smentita dagli stessi ufficiali afghani, i quali avevano ammesso di aver detto il falso al solo scopo di ottenere maggiori fondi dal governo. D’altra parte, la tentazione di strumentalizzare lo spauracchio dello Stato Islamico è molto forte, alla luce della propensione mostrata dalla comunità internazionale ad elargire risorse per contrastare l’ascesa di tale formazione. Alla base della decisione dell’Amministrazione Obama di modificare il calendario per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan vi sarebbe, tra le altre cose, proprio il timore che il Paese possa diventare una nuova vittima di Daesh (acronimo arabo dello Stato Islamico).
Tuttavia, che il gruppo sia riuscito a stabilire una presenza in Afghanistan e nel vicino Pakistan appare oramai fuori discussione. A gennaio, un gruppo di leader dei Taliban pakistani e di ex-comandanti dei Taliban afghani aveva diffuso un video nel quale dichiarava la propria lealtà allo Stato Islamico. Pochi giorni dopo, Daesh annunciava la sua espansione nella “Provincia di Khorasan”, nominando Hafiz Saeed Khan e il Mullah Abdul Rauf Khadim, rispettivamente governatore e vice-governatore. Quest’ultimo è stato ucciso il 9 febbraio, nella provincia di Helmand, dall’attacco di un drone; così come il suo vice (oltre che suo nipote), Hafiz Wahidi, ucciso il 16 marzo, in un’operazione condotta dalle forze di sicurezza afghane nella stessa provincia.
Una presenza per ora contenuta, come detto poc’anzi, ma che rischia di divenire presto ben più consistente. L’Afghanistan non è certamente la Libia, ove lo Stato Islamico sta avendo vita facile a reclutare nuovi militanti ed estendere a macchia d’olio le proprie operazioni. L’ormai storica presenza dei Taliban, infatti, rappresenta un grosso ostacolo per le mire espansionistiche del gruppo di al-Baghdadi. Così come l’assenza di un fertile background ideologico: in Afghanistan, infatti, a differenza di quel che avviene in Paesi come l’Iraq o il più vicino Pakistan, l’attività dei gruppi insorgenti non ha mai seguito un’agenda settaria, che rappresenta invece una vera e propria colonna portante della dottrina dello Stato Islamico. Nonostante il “flirt” con al-Qaeda, i Taliban nascono come movimento prettamente locale e nel tempo non hanno mai modificato i loro obiettivi e il loro paradigma ideologico.
Sarebbe, tuttavia, sbagliato sottovalutare il rischio di un’espansione del Daesh nel Paese. In primo luogo, l’elemento ideologico non sempre svolge un ruolo centrale nel determinare scelte e azioni dei gruppi terroristici. Inoltre, le operazioni militari in corso dallo scorso giugno in Pakistan hanno spinto numerosi militanti prima stabiliti nel Nord Waziristan e in altre agenzie tribali, molti dei quali stranieri (ceceni, arabi e centrasiatici), a varcare il confine e cercare rifugio in varie zone dell’Afghanistan. Molti si sarebbero stabiliti nelle province di Paktika e Zabul (qui ha avuto luogo, a fine febbraio, il rapimento di 31 Hazara, operazione alla quale hanno preso parte anche cittadini del Kirghizistan), ma altri si sarebbero spinti sino al nord del Paese, quasi a ridosso della frontiera con i Paesi dell’Asia centrale. Non è un caso che proprio la Russia, che ha nella zona centrasiatica una sua tradizionale sfera di influenza, abbia espresso forte preoccupazione circa le attività dello Stato Islamico in Afghanistan e abbia incitato la comunità internazionale e il governo di Kabul ad agire con prontezza e decisione.
Il timore principale, infatti, è quello che possibili negoziati tra i Taliban e le autorità afghane possano spingere eventuali fazioni dissidenti a disconoscere l’autorità del Mullah Omar e giurare fedeltà al Califfo Ibrahim (al secolo Abu Bakr al-Baghdadi). Non è un mistero, infatti, che negli ultimi anni siano emerse divisioni all’interno del movimento Taliban, dovute in primo luogo alla leadership sempre più debole esercitata dal Mullah Omar, praticamente scomparso dal 2001 (a parte alcune registrazioni audio e messaggi scritti, la cui attendibilità è difficile da verificare). Alcuni ipotizzano che sia morto, mentre altri ritengono sia detenuto a Quetta o a Karachi dalle autorità pakistane. Quel che è certo, però, è che tali divisioni offrono interessanti margini d’azione allo Stato Islamico, che potrebbe diventare un vero e proprio ombrello sotto il quale vari gruppi dissidenti potrebbero trovare collocazione. Si tratterebbe, almeno in una prima fase, di una sostanziale ridenominazione di formazioni già esistenti e operative nel Paese, più che di una vera e propria espansione del Daesh. Offrendo ad elementi prima isolati una bandiera comune per la quale combattere, tuttavia, lo Stato Islamico fungerebbe da collante per forze altrimenti divise, allontanando ulteriormente la prospettiva, già di per sé remota, di una reale e duratura pacificazione in un Paese che sembra non poter trovare tregua.
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Dopo mesi di indiscrezioni e smentite, il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan, Nicholas Haysom, ha ammesso la presenza dello Stato Islamico (SI) nel Paese. Una presenza per ora contenuta, ma cionondimeno preoccupante, se si considera la precarietà del quadro di sicurezza afghano.