Una sentenza shock della Corte suprema indiana ribalta una sentenza storica del 2009, che abrogava l’infame legge 377 di epoca vittoriana che considerava reato i rapporti omosessuali.

L’incredibile sentenza della massima corte indiana stamattina ha riportato l’India democratica indietro di dieci anni, quando la timida comunità LGBT intensificava la battaglia per vedere finalmente riconosciuti i diritti costituzionali di libertà d’espressione, uguaglianza e dignità per tutti i cittadini, al di là degli orientamenti sessuali.
La campagna portò nel 2009 a una sentenza storica pronunciata dall’Alta corte di Delhi in cui si sanciva che la legge 377, che prevedeva pene detentive da un anno all’ergastolo per il reato di “attività sessuale contro natura”, ledeva i diritti fondamentali della Costituzione dell’India indipendente. Essere omosessuali in India, dopo quasi 150 dalla formulazione della 377 di epoca coloniale, non era più reato; era, banalmente, naturale.
Ma oggi il giudice Singhvi, che presiedeva la corte per l’ultimo giorno prima della pensione, ha deciso che non spettava al potere giuridico pronunciarsi circa la liceità della legge anti-gay, bensì al potere legislativo, al parlamento. Accogliendo i ricorsi piovuti negli anni da decine di organizzazioni religiose indiane – hindu, musulmani e cristiani – ha di fatto annullato il pronunciamento del 2007 scaricando il barile sul parlamento indiano (a una manciata di mesi dalle elezioni generali).
La comunità LGBT in India è in subbuglio e disorientata: nessuno si aspettava che, dopo il riconoscimento di un diritto naturale, una corte di un paese democratico potesse esprimersi in termini così platealmente oscurantisti. La dichiarazione più efficace, per ora, l’ha rilasciata l’attivista Vikram Doctor all’inviato della Bbc in India Soutik Biswas: “Una volta che si fa outing, non si può tornare indietro”.
Le tesi a sostegno della legge 377, come spesso accade quando si tratta di leggi sui diritti LGBT, sono oltre i confini del buon senso e del secolarismo: gli hindu si appigliano al mantenimento della fantomatica “tradizione hindu”, considerando l’amore omosessuale alla stregua di una malattia mentale curabile, secondo il “santone” Baba Ramdev, con specifici esercizi yoga; musulmani e cristiani si rifanno alle rispettive Sacre Scritture, completando per una volta l’unità d’intenti delle maggiori religioni presenti sul territorio indiano.
La spinta degli ambienti religiosi è riuscita a prevaricare i principi secolari sui quali si fonda la Repubblica indiana, trovando una sponda pavida e pilatesca nel giudice Singhvi che, come minimo, ridicolizza il paese a livello internazionale: è assurdo pensare che nell’India delle sculture erotiche di Khajurhao, degli ermafroditi hijra ancora oggi richiesti – secondo tradizione hindu – per danzare e scacciare la malasorte durante matrimoni, “battesimi” e feste private, si mantenga una legge coloniale che normi gli aspetti privati, naturali e sessuali della popolazione andando a negare il diritto fondamentale di essere, semplicemente, come si è.
Una sentenza shock della Corte suprema indiana ribalta una sentenza storica del 2009, che abrogava l’infame legge 377 di epoca vittoriana che considerava reato i rapporti omosessuali.