In molti mi avete scritto condividendo le vostre perplessità, la vostra rabbia, le vostre opinioni sulla catena di stupri in India della quale, recentemente, è riemersa la gravità anche sulla stampa italiana.
Ad alcuni sono sembrato un po’ freddo e distaccato. Provo a mettere in fila un po’ di pensieri, metteteci la tara del caldo infernale di qui (45 gradi al momento della stesura di questo post).

Nel post sulle adolescenti stuprate e impiccate avevo provato a spiegare i contorni mediatici e sociali della tragedia, con l’intento di capire in che condizioni si parla qui in India di una piaga che ormai – nell’India urbana, almeno – è più o meno sotto gli occhi di tutti. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato con lo “stupro di Delhi”, un caso limite che è riuscito a bucare l’omertà tradizionale per una serie di motivi accessori: una violenza cruenta avvenuta nella capitale, governata all’epoca dall’Indian National Congress, accusato di non saper garantire la sicurezza in città; una violenza interclassista (cinque indiani migranti ai margini della società che attaccano un’indiana migrante iscritta all’università); una violenza cavalcata dalla politica, arginando il dibattito su quale partito facesse meglio o peggio per contrastare la deriva violenta nel proprio territorio.
In seguito, vado a memoria, c’è stato il caso di una ragazza violentata a Calcutta, con conseguente chiusura dei locali a mezzanotte, ché le donne in giro da sole quando cala il buio non ci devono stare; poi Tarun Tejpal, direttore di Tehelka, che molesta una stagista (datore di lavoro potente vs giovane giornalista di belle speranze); violenza di gruppo contro una ragazza tribale in Bengala occidentale, rea di voler avere una relazione con un uomo non appartenente alla propria comunità (arretratezza tribale vs presunta apertura mentale dei non tribali / dell’Inda urbana); fotogiornalista violentata vicino a uno slum a Mumbai (disagio degli slum vs India urbana)…e si potrebbe continuare per pagine e pagine, tra i fatti noti alla stampa internazionale e quelli nascosti nelle pagine della cronaca locale, fino ad arrivare ora alla violenza in Uttar Pradesh (inazione del Samajwadi Party, partito di governo in Up vs presunti esempi virtuosi nel resto del paese; persecuzione dei dalit; colpevolezza degli organi di polizia / mele marce nelle autorità) o, ultimissimo episodio, donna 35enne violentata da un gruppo di guerriglieri indipendentisti dello stato del Meghalaya (barbarie dei guerriglieri vs pace dei villaggi del nordest).
Per ognuno di questi episodi il dibattito e le potenziali soluzioni al problema sono rimaste circoscritte alla polemichetta politica – “voi al governo non fate abbastanza, se ci fossimo stati noi…” – o, nel più “panindiano” dei casi, ad un problema di law and order. L’aspetto culturale, l’unico filo rosso in grado di legare tutte queste storie, viene sistematicamente accantonato. Queste sono tutte storie di uomini che violentano le donne e nessuno si sofferma alla radice del problema: il rapporto di subordinazione che le donne, in vari gradi di intensità, subiscono sia nell’India urbana che nell’India rurale. La mancanza di una dimensione omnicomprensiva dei diritti delle donne in India fa sì che nel paese ancora non ci siano le basi per un reale movimento di protesta.
Ci sono vampate di indignazione frammentaria, che vedono gruppi ben definiti – le studentesse urbane; le donne dalit; le donne del nordest; le donne del Bjp… – individuare altrettanti gruppi ben definiti – gli uomini degli slum; gli uomini tribali; gli uomini in polizia; gli uomini potenti; gli uomini migranti nelle megalopoli; gli uomini della movida notturna – scagliandosi unicamente, per un periodo di lunghezza variabile a seconda della copertura mediatica, contro di loro. Tutto poi torna a tacere, fino a una nuova storia rilanciata dai media, a nuove polemichette politiche, a nuovi distinguo, in un circolo vizioso virtualmente infinito.
La soluzione? Chi la trova è davvero bravo.
Penso che le cose saranno più facili quando e se si accorcerà il divario abissale che divide la popolazione urbana da quella rurale, due gruppi che – per forza di cose – in larga parte non si conoscono, ignorano le reciproche esistenze, non si sentono parte di un gruppo unitario chiamato “indiani”.
Penso che la borghesia indiana, la politica, i media e la costellazione dei gruppi femministi – per demeriti personali, disinteresse, impossibilità oggettiva di aggregazione del consenso – abbiano completamente fallito nel compito di guidare il paese verso una rivoluzione del rapporto uomo-donna, ostacolati ora dalla morigeratezza dei costumi locali, ora dalla difesa strenua delle cosiddette “tradizioni indiane”, ora dalla frammentazione del tessuto sociale, suddiviso in gruppi e sottogruppi – religiosi, castali, etnici, di classe – chiusi in forme di ghettizzazione (autoindotte e non).
Penso che le questioni di genere non siano assolutamente tra le priorità del nuovo governo in carica e non vedo alcun miglioramento sensibile all’orizzonte. E penso che la comunità internazionale non possa fare nulla per cambiare le cose qui.
L’unica speranza – perché nonostante tutto bisogna continuare a sperare – è riposta nella classe dirigente del futuro, i giovani urbani, oggi come non mai esposti al battage mediatico degli stupri nel paese, con un accesso alle informazioni inedito nella storia indiana.
Saranno loro a poter riuscire, in condizioni si spera più favorevoli, dove i loro genitori hanno miseramente fallito.
In molti mi avete scritto condividendo le vostre perplessità, la vostra rabbia, le vostre opinioni sulla catena di stupri in India della quale, recentemente, è riemersa la gravità anche sulla stampa italiana.
Ad alcuni sono sembrato un po’ freddo e distaccato. Provo a mettere in fila un po’ di pensieri, metteteci la tara del caldo infernale di qui (45 gradi al momento della stesura di questo post).