Secondo fonti anonime ascoltate dalla Reuters, il Presidente cinese Xi Jinping – la cui famiglia pare sia buddista – avrebbe chiesto al Partito una maggior tolleranza nei confronti delle fedi tradizionali cinesi, vale a dire il confucianesimo, il buddismo e il taoismo.

La scelta di Xi, non sorprende, anzi. Se la Cina è alla ricerca di una via politica ed economica capace di risanare il paese, il Partito è da tempo alla ricerca di un collante sociale, capace di tenere a freno le tensioni sociali e in grado di dipingere una sorta di «identità» della Cina dei giorni nostri. Per chi è stato in Cina è molto semplice concludere, infatti, come i cinesi sembrino completamente alla ricerca di una identità culturale, capace di spiegare anche in termini non propriamente razionali, tutto quanto accade sopra le proprie teste. I cinesi si dice siano pratici, ma in molti casi la percezione è quella di una popolazione che ha fatto del materialismo gretto la propria bussola sociale. Non ci si lamenti, quindi, se poi la corruzione emerge anche a livelli apicali: la corruzione è un problema contingente della Cina perché presente in ogni anfratto sociale.
Proprio per questa tendenza che è apparsa ancora più dirompente con la clamorosa crescita economica del paese, l’ex Presidente Hu Jintao aveva provato a rilanciare il confucianesimo, massacrato dal maoismo, proprio nell’ottica di trovare un nuovo collante sociale, totale, generale, in grado di unire il popolo cinese, pur nelle sue diversità etniche e di ricchezza; proprio il confucianesimo, attraverso il principale concetto di «armonia» e di «società armoniosa» ha avuto quindi nuova linfa durante il decennio di Hu Jintao e Wen Jiabao. Il concetto di «armonia» del resto non va confuso con un semplice «vogliamoci bene», ma riprende proprio la tradizione confuciana in cui l’armonia si ottiene anche attraverso la ricomposizione di evidenti contraddizioni. Al di là della retorica, quindi, il rilancio confuciano sembrava poter fare presa su una popolazione alla ricerca di un metodo e di un’etica per confrontarsi con i grandi cambiamenti in corso.
Non è un caso, per altro, come anche altre religioni siano utilizzate dal Partito in modo «politico»: nei mesi scorsi un reportage del Guardian aveva dimostrato l’intensa attività di cristiani nella regione del Tibet. Anche in quel caso quello che apparentemente stupiva era la straordinaria libertà che a queste persone veniva garantita dal Partito. Gli obiettivi di Pechino infatti erano due: pur di placare le tensioni, anche il cristianesimo, purché sotto il controllo della Capitale, va bene. Inoltre in Tibet altre religioni vengono viste come potenzialmente in grado di diminuire l’influenza del buddismo.
Dietro una pseudo crociata contro il materialismo, dunque, si nasconde tutto il materialismo politico cinese contemporaneo: utilizzare religioni e fedi popolari, per bloccare tensioni sociali e consentire una sorta di guida morale ed etica fai da te. Anche perché il Partito non può essere certo un esempio etico da prendere in considerazione: tra il 2008 e il 2012 circa 143mila funzionari del governo – pari ad una media di 78 al giorno – sono stati giudicati colpevoli di corruzione, secondo un rapporto della Corte Suprema presentato nel mese di marzo.
Corruzione e arricchimento, o sopportazione di una condizione sociale misera: Xi Jinping tenta la carta religiosa, nel paese ateo per Costituzione.
Secondo fonti anonime ascoltate dalla Reuters, il Presidente cinese Xi Jinping – la cui famiglia pare sia buddista – avrebbe chiesto al Partito una maggior tolleranza nei confronti delle fedi tradizionali cinesi, vale a dire il confucianesimo, il buddismo e il taoismo.