Nei giorni scorsi la stampa internazionale ha ripreso con molta enfasi i consigli del Fondo Monetario Internazionale alla Cina. In particolare il Financial Times, non a caso, ha dedicato ampio spazio al report del FMI, mentre oggi la Reuters riporta un articolo secondo il quale la crisi cinese comincerebbe a danneggiare anche le aziende statunitensi.

Di sicuro il rallentamento cinese c’è, lo ammettono gli stessi politici locali; quest’ultimi hanno provato a giustificare il rallentamento come una sorta di «occasione» per rimodellare il proprio impianto produttivo e finanziario. Si tratta sicuramente di propaganda, ma c’è anche del vero: per la Cina da tempo si parla di un cambiamento di paradigma alla ricerca di quell’alchimia capace di tramutare la quantità in qualità (processo nel quale bisogna ammettere la Cina non è proprio degna di nota).
Quindi: da un lato sicuramente la Cina ha bisogno di cambiare, di modificare alcuni processi, di adeguarsi alla presa di coscienza che vuole lo scenario internazionale mutato, anche grazie alla propria crescita, dall’altro però non si capisce perché i commentatori internazionali proseguano nell’indicare la ricetta del FMI come l’unica percorribile dalla Cina.
Del resto i cinesi sono molto scettici: hanno detto di prendere per buone le indicazioni, ma ad ora nicchiano alla ricerca di una – consueta – propria via. Alla ricerca delle «caratteristiche cinesi». Alla fine, come si possono riassumere le richieste del FMI, affinché la Cina possa evitare un tanto temuto hard lending? Scrive il Financial Times, che « il modello cinese non è sostenibile e sta creando vulnerabilità, secondo il FMI e mentre la Cina ha ancora cuscinetti significativi contro gli shock, i margini di sicurezza sono in diminuzione». Lotta al credito ombra, regolamentazione prestiti e aziende statali sono il problema della Cina. Servono, dice il FMI, riforme.
Alla parola «riforme» i commentatori internazionali stanno esultando come non ci fosse un domani, come – soprattutto -se queste «riforme» potessero superare gli scenari economici e tramutarsi in contesti politici. Non è così: la Cina ora come ora non ha intenzione di modificare il proprio assetto politico; muterà quello economico, ma perché dovrebbe farlo con le ricette di un mondo che non solo non ha saputo prevedere una crisi, ma neanche sembra in grado di risolverla?
Perché si chiede alla Cina di fare un ulteriore passo nella nostra contemporaneità occidentale neoliberista, ben sapendo quali sono gli effetti di certe politiche? Qualche settimana fa ho chiacchierato con Wang Hui, noto intellettuale cinese, che al riguardo ha spiegato un concetto molto chiaro. Se i giornalisti parlassero di più con intellettuali cinesi, anziché cercare l’opinione solo di commentatori americani, forse sarebbe più chiaro a tutti la ragione di questa sorta di momentaneo blocco decisionale cinese. «Abbiamo preso come primo modello l’Unione Sovietica, e ha fallito. Abbiamo preso come secondo modello gli Usa, e sono in crisi. La nuova direzione di sicuro non sarà qualcosa di già visto, ma questo significa che ad ora nessuno sa quale sia».
Con buona pace dei capitali privati, la cui volata è stata lanciata dal FMI da anni, ormai.