Il 5 novembre del 2014 si teneva la prima riunione del nuovo collegio dei commissari europei guidato da Jean-Claude Juncker. Lussemburghese, classe ’54, candidato del partito popolare europeo, Juncker è subentrato a Barroso con la promessa di un nuovo inizio per l’Europa e un monito: questa sarebbe stata l’ultima occasione per recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee. Un anno dopo, a che punto siamo?
Nell’analisi di Juncker i problemi della Commissione europea sono in primo luogo di metodo: un esecutivo di ventotto “ministri” stenta a funzionare. La soluzione è stata individuata in un’inedita struttura in cui una cerchia di sette vice-presidenti coordina il lavoro degli altri commissari. Finora il sistema sembra funzionare e gli unici attriti si registrano tra membri dell’esecutivo provenienti da gruppi politici diversi.
Oltre al metodo i problemi sono di contenuto. La Commissione doveva scrollarsi di dosso l’immagine di alfiere dell’austerità ed ente eccessivamente burocratico, impegnato ad intervenire in questioni come la forma delle zucchine. Nel nuovo corso, crescita ed occupazione sarebbero diventate le parole d’ordine di una Commissione più politica, “grande sulle cose grandi e piccola sulle cose piccole”.
L’impulso per una Commissione più politica è arrivato con l’individuazione da parte di ciascun gruppo politico di un proprio candidato alla presidenza, che Juncker ha proseguito mettendo insieme un team di personalità politiche. Un cambiamento che riflette una tendenza inevitabile. Rispetto ai nuovi poteri conferiti all’Ue ed alle sfide globali a cui è chiamata, non si tratta più di armonizzare standard tecnici ma di compiere scelte squisitamente politiche, come decidere dei poteri di scrutinio sui bilanci nazionali, o di quale politica di immigrazione adottare.
Quanto alle iniziative, la Commissione sembra attenersi al motto di Juncker. Nel primo anno in carica sono state presentate proposte ambiziose in diversi rami dell’esecutivo: il piano per gli investimenti, la strategia per il mercato unico digitale, l’unione dei mercati dei capitali, i progetti per l’unione energetica, il rapporto sul futuro dell’unione economica e monetaria, il pacchetto sulla trasparenza fiscale. Con quest’ultima iniziativa, che include la proposta dello scambio automatico di informazioni sugli accordi fiscali tra governi e multinazionali, Juncker ha cercato di rimediare agli imbarazzi dell’inchiesta “Luxleaks” sul trattamento favorevole che il Granducato, di cui è stato premier per diciott’anni, riservava a diverse multinazionali.
La maggior parte delle proposte rimane ancora sulla carta e molto dipenderà da come verranno attuate e dalla volontà politica che vorranno mostrare gli altri due organi chiave, il Consiglio e il Parlamento. Il piano da 315 miliardi di investimenti, ad esempio, è stato depotenziato in sede di negoziazione con gli Stati membri rispetto alla proposta iniziale della Commissione. Ma intanto sono state gettate le basi per il proseguimento del mandato. Con la nuova strategia per la “Better Regulation” Juncker sembra poi fare sul serio sulla promessa di ridurre gli oneri della regolamentazione europea e di ridimensionare il ruolo della Commissione sui temi che possono essere meglio affrontati a livello nazionale.
Eppure, l’ultimo anno è stato caratterizzato soprattutto dalla crisi greca e da quella dei rifugiati, in cui l’Ue ha vissuto alcune delle sue ore più buie. Juncker si è speso in prima persona nei negoziati con la Grecia, premendo affinché il paese restasse nella moneta unica ed incoraggiando i greci a votare a favore del bailout nel referendum di luglio, abbandonando così la consueta equidistanza della Commissione. Anche nella gestione della crisi dei rifugiati la Commissione si è mostrata attiva con la proposta di una ridistribuzione obbligatoria dei rifugiati, che tuttavia ha incontrato le resistenze e i tentennamenti degli Stati membri.
A un anno di distanza rimangono ancora alcune incognite – dall’implementazione del terzo bailout greco alla crisi dei migranti tuttora irrisolta; segnali d’allarme – dalla svolta euroscettica della Polonia a quella anti-austerità del Portogallo; e rischi esistenziali – su tutti il referendum nel Regno Unito. Tuttavia, c’è spazio per un moderato ottimismo. Rispetto al novembre 2014, l’Ue ora registra un tasso di crescita in aumento e una disoccupazione in calo; l’euro ha perfino guadagnato un membro in più con l’ingresso della Lituania; secondo l’ultimo sondaggio Eurobarometro la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee è in crescita e si attesta ben sopra quella nei rispettivi governi e parlamenti nazionali. Per quanto un demos europeo sia ancora in divenire, è chiaro a tutti che le grandi questioni si affrontano in Europa. La sfida per la Commissione sta nel far sì che i piani, i pacchetti e le strategie producano risultati.
Il 5 novembre del 2014 si teneva la prima riunione del nuovo collegio dei commissari europei guidato da Jean-Claude Juncker. Lussemburghese, classe ’54, candidato del partito popolare europeo, Juncker è subentrato a Barroso con la promessa di un nuovo inizio per l’Europa e un monito: questa sarebbe stata l’ultima occasione per recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee. Un anno dopo, a che punto siamo?