L’attacco terroristico di ieri a Bodh Gaya, città sacra buddhista che vanta un complesso di templi attorno all’albero dove il Buddha raggiunse l’Illuminazione, qui in India ha colto tutti di sorpresa. È molto raro infatti che le mete del pellegrinaggio buddhista siano oggetto delle rivendicazioni terroristiche che, regolarmente, scuotono le fondamenta della Repubblica indiana.

Le ultime notizie parlano di un sospettato fermato dalla polizia del Bihar nel distretto di Barachatti, una zona controllata dai maoisti naxaliti, dando così vita all’ipotesi che le 8 bombe – sei esplose, due disinnescate, qualche ferito e nessun morto – fossero state piazzate dai terroristi rossi che da oltre quarant’anni combattono contro il governo per una “rivoluzione proletaria e contadina” nel subcontinente, schierandosi al fianco di tribali e contadini a difesa, formalmente, dei diritti delle classi emarginate dallo sviluppo indiano.
Si tratterebbe di un fatto inedito nell’ambito dell’offensiva naxalita, che tradizionalmente prende di mira politici e forze dell’ordine in una feroce guerriglia nella giungla oppure, specie in passato, si esibisce in atti di forza dimostrativi con attentati bombaroli nelle grandi metropoli.
Una seconda pista forse più verosimile porta invece agli Indian Mujahideen, cellula terroristica islamica responsabile di numerosi attentati a sfondo religioso – celebre le esplosioni nella città sacra hindu di Varanasi tre anni fa – e che stavolta potrebbero aver attaccato il simbolo del buddhismo in India come rappresaglia alla mattanza di musulmani di etnia rohingya in Myanmar portata avanti proprio dall’estremismo buddhista (suona come ossimoro, eppure…) appoggiato dalle forze dell’ordine birmane e da quel che rimane della giunta militare filo-buddhista.
Insomma, in India non è proprio semplice risalire ai responsabili di atti terroristici, soprattutto perché all’interno dei propri confini il Paese è attraversato da diversi movimenti estremisti ed indipendentisti. L’eterogeneità dell’India (proprio ieri un amico bengalese la descriveva come “tante nazioni in un solo Stato”) dal 1947 ad oggi non è ancora riuscita a riunire i propri popoli – ai quali, costituzionalmente, è garantito un alto grado di autonomia culturale e linguistica – sotto un comune sentimento patriottico che vada oltre all’inno nazionale cantato prima delle proiezioni al cinema o delle partite di cricket, eccezion fatta davanti alla minaccia continua del vicino Pakistan.
Da questo punto di vista, a volte, l’India appare un paese veramente unito solo nella paura.
Scorrendo la cartina geografica, l’elenco dei gruppi terroristici che a vario titolo combattono contro il potere centrale di Delhi è impressionante; si va dagli indipendentisti kashmiri nel nord-ovest a una manciata di gruppi sikh in Punjab, costole del forte movimento indipendentista sikh degli anni ’80, responsabile dell’assassino del primo ministro Indira Gandhi nel 1984 in risposta all’assalto al Tempio d’Oro delle truppe governative, nome in codice Operazione Blue Star (500 morti e, dopo assassino di Indira Gandhi, altri 3000 in scontri tra sikh e hindu).
L’intero nord-est è una polveriera: l’appendice indiana che circonda il Bangladesh e confina col Myanmar è formata dagli stati di Assam, Meghalaya, Tripura, Mizoram, Manipur, Nagaland ed Arunachal Pradesh, le cosiddette “sette sorelle”. Ognuno di questi ha all’attivo almeno un gruppo separatista armato – chi di stampo indipendentista, chi comunista, chi entrambi – in un conflito continuo con le forze speciali anti-terrorismo mandate da Delhi a sedare le rivolte.
Poi ci sono i naxaliti, che controllano ampie zone in Bengala Occidentale, Bihar, Jharkhand, Orissa e Andhra Pradesh. Sempre in Andhra Pradesh sono attivi gruppi per l’indipendenza della regione del Telangana, anche se qui la divisione tra movimenti indipendentisti e naxaliti è molto sfumata.
Più a sud troviamo il Shiv Sena, letteralmente “l’esercito di Shiv”, organizzazione paramilitare dell’estremismo hindu apertamente ispiratasi al nazismo – Bal Thackeray, il suo leader storico morto l’anno scorso, pubblicamente tesseva grandi lodi di Hitler – che sostanzialmente controlla la metropoli di Mumbai. Negli anni ’90 le squadracce del Shiv Sena rastrellarono i quartieri musulmani della capitale economica indiana, causando quasi 2000 morti in poco più di una settimana.
E arriviamo infine in Tamil Nadu, dove il governo centrale è riuscito effettivamente a debellare l’insurrezione delle Tigri del Tamil, movimento indipendentista originario dello Sri Lanka, che nel 1989 uccisero l’allora premier Rajiv Gandhi, figlio di Indira.
In tutti questi casi – escluso il Shiv Sena, che gode di appoggi politici molto forti nella destra indiana – il governo ha sempre risposto col pugno di ferro. Coi terroristi non si tratta, meglio militarizzare il territorio. Così, per ogni gruppo terrorista, nasce un corpo speciale, un’organizzazione paramilitare governativa, col mandato di estirpare il seme del dissenso violento nelle periferie della nazione, costi quel che costi.
È il prezzo per la democrazia, piace ripetere a Delhi.
L’attacco terroristico di ieri a Bodh Gaya, città sacra buddhista che vanta un complesso di templi attorno all’albero dove il Buddha raggiunse l’Illuminazione, qui in India ha colto tutti di sorpresa. È molto raro infatti che le mete del pellegrinaggio buddhista siano oggetto delle rivendicazioni terroristiche che, regolarmente, scuotono le fondamenta della Repubblica indiana.