Se al di qua del Mediterraneo la partita in Libia fino a ora si è giocata tra un’accelerata improvvisa verso la guerra e una frenata netta per poi virare verso la diplomazia, i paesi sulla sponda sud del Mediterraneo hanno le idee molto più chiare.
“Escludiamo qualsiasi intervento militare in Libia perché significherebbe violare la sua sovranità”, sono state le parole del Presidente tunisino Beji Caid Essebsi dopo l’inizio dei bombardamenti del generale egiziano Abdelfattah Al-Sisi a febbraio, contro le postazioni dello Stato islamico in Libia.
Al-Sisi ufficialmente vuole vendicare la morte dei ventuno egiziani copti e i ripetuti attentati fatti nella penisola del Sinai dal gruppo Ansar Beit al-Maqdis, affiliato all’ISIS. Il quale a sua volta combatte contro il pugno di ferro che Al-Sisi sta sferrando contro i Fratelli Musulmani in Egitto.
Un circuito di odi e vendette che col sangue si nutre e cresce.
Ma gli entusiasmi bellici di Al-Sisi non sono condivisi né dall’Algeria né dalla Tunisia, come spiega un’analisi di Francis Ghilé, research fellow del Barcelona Center of International Affairs.
In Tunisia oggi vive mezzo milione di rifugiati libici, scappati dalla guerra del 2011 e accolti dai tunisini con la solidarietà e la comprensione di chi si trovava a vivere il medesimo destino. In quel caso, la fuga da una rivoluzione e la cacciata dei rispettivi dittatori.
Ma l’esperienza tunisina e quella libica hanno avuto genesi e storie molto diverse.
La rivoluzione tunisina nacque spontaneamente e senza interferenze esterne. Per quattro anni il paese ha vissuto vicende alterne, finché si è dato una nuova Costituzione, un nuovo parlamento e un Presidente della Repubblica, entrambi eletti democraticamente. L’economia è ancora sofferente, la disoccupazione un problema serio, molti diritti sono rispettati più sulla carta che nella vita di tutti i giorni, ma quello tunisino è comunque un percorso che a piccoli passi sta andando avanti e che per questo motivo teme contagi pericolosi, soprattutto nelle regioni del sud. Ovvero quei territori come Medenine, Ben Guerdane, Tozeur, dove gli abitanti hanno votato per Ennahda più che per Nidaa Tounes alle politiche; per Moncef Marzouki più che per Beji Caid Essebsi alle presidenziali di dicembre. Regioni che tradizionalmente sono più affini all’Egitto che al modo di vivere di Tunisi o delle città costiere in stile occidentale. E che dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1956 nutrivano sogni di panarabismo, più che di progressismo alla maniera di Habib Bourguiba, ancora oggi considerato come il padre della Tunisia moderna.
Tunisi riconosce in quello di Tobruk il governo libico, ma sa che lungo i suoi confini è pieno di simpatizzanti per il governo di Tripoli, città non lontana dalla frontiera, la stessa che migliaia di cittadini tunisini ogni giorno valicano per entrare in Libia a lavorare. Rendendosi di fatto economicamente dipendenti più dalla Libia che dalla Tunisia.
Ecco quindi qual è il timore più grande: che un intervento della Nato oggi possa contagiare anche le regioni meridionali della Tunisia e infettare la democrazia ancora giovane e ancora vulnerabile del paese.
Preoccupazione condivisa dall’Algeria, che dall’indipendenza dalla Francia nel 1962 ha focalizzato tutta la propria strategia di difesa nel controllo delle frontiere e nella lotta al terrorismo, evitando di partecipare a guerre che potessero estendersi all’interno dei suoi confini. Strategia confermata anche stavolta a proposito della crisi libica dal ministro degli Esteri Ramtane Lamamra, per il quale non ci sono risposte immediate alla grande confusione che l’Occidente ha portato in Libia.
@Seregras
“Escludiamo qualsiasi intervento militare in Libia perché significherebbe violare la sua sovranità”, sono state le parole del Presidente tunisino Beji Caid Essebsi dopo l’inizio dei bombardamenti del generale egiziano Abdelfattah Al-Sisi a febbraio, contro le postazioni dello Stato islamico in Libia.