La democrazia è sempre meglio di un golpe
I protagonisti del golpe fallito sono stati Erdoğan, i golpisti, ma soprattutto la società civile turca che si è opposta con determinazione allo scippo delle proprie conquiste democratiche
I protagonisti del golpe fallito sono stati Erdoğan, i golpisti, ma soprattutto la società civile turca che si è opposta con determinazione allo scippo delle proprie conquiste democratiche
Sul tentativo di colpo di Stato del 15 luglio in Turchia va detto innanzitutto che è una fortuna che sia fallito. Fosse andato a buon fine, il Paese avrebbe dovuto affrontare mesi di guerra civile e spargimenti di sangue. Nonostante il durissimo giro di vite e gli aspetti draconiani dello stato di emergenza introdotto di recente, la maggioranza dei Turchi crede che un golpe riuscito sarebbe stato ben più devastante.
E a ragione.
A sconvolgere i piani messi in atto nella notte di venerdì 15 luglio è stata la mancata cattura del Presidente turco Tayyip Erdoğan, che meno di un’ora prima aveva lasciato l’hotel sul litorale mediterraneo in cui alloggiava con la famiglia. Se il commando d’assalto fosse riuscito ad arrestarlo o assassinarlo, le cose sarebbero andate diversamente. Ma quella sera Erdoğan era stato informato di attività insolite tra i cadetti. Era quindi fuggito e aveva lanciato un appello via FaceTime ai suoi sostenitori, invitandoli a scendere in strada e opporre resistenza ai golpisti. Il messaggio si è diffuso a macchia d’olio tramite sms e Twitter; orde di sostenitori si sono riversate sull’aeroporto di Istanbul, sul ponte sul Bosforo e in altri punti chiave. Accolti da una folla accanita e da forze di polizia ben attrezzate, i golpisti si sono arresi all’alba del giorno seguente.
Una svolta incredibile: una giunta militare stile anni Settanta rovesciata dagli strumenti mediatici del 2016.
Ma il destino della Turchia dipenderà soprattutto dal modo in cui verranno gestiti il periodo post golpe e il ritorno alla democrazia.
Pare che al cuore del comitato rivoluzionario ci fossero seguaci segreti del predicatore Fethullah Gülen, residente negli Usa, accusato da più governi turchi di aver alimentato cellule dormienti all’interno dell’esercito, della magistratura e della burocrazia. Il livello di penetrazione è tale da paralizzare le forze armate turche per anni a venire. Le indagini hanno rivelato una rete che comprende centinaia di ufficiali, quasi un terzo dei generali, alti funzionari dell’esercito, membri del personale di supporto, il capo di stato maggiore Hulusi Akar e il suo aiutante di campo, gli assistenti personali dei generali a quattro stelle a capo della Marina, dell’Aviazione e della Gendarmeria, e gli ufficiali di collegamento personali di Erdoğan.
I media turchi e quelli occidentali hanno trattato l’accaduto in modo assai diverso. In Europa e negli Usa ci si concentra sulle misure repressive adottate dalle autorità, mentre i media turchi parlano quasi esclusivamente della rete di Gülen. Questa rete clandestina è riuscita a nascondersi per decenni, non stupisce quindi che il pubblico europeo e occidentale fatichi a cogliere le varie sfaccettature politiche della vicenda.
Ad aggiungere confusione c’è anche la vecchia alleanza tra il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo al governo (AKP) e il movimento di Gülen. I gulenisti hanno fornito ingenti “risorse umane” all’AKP durante il suo primo decennio al potere (20022012) e hanno svolto un ruolo cruciale nelle grandi epurazioni contro i laicisti nell’esercito tra il 2009-2013. I processi di allora furono lodati dall’Ue per aver ridotto l’influenza dell’esercito all’interno della politica turca, ma essi hanno anche inciso profondamente sul sistema giudiziario e alterato la struttura di comando dell’esercito, permettendo ai gulenisti di accedere a posizioni di spicco. Solo nel 2013 è scoppiata apertamente una controversia tra l’AKP e i sostenitori di Gülen, accusati da Erdoğan di star cercando di orchestrare la sua caduta attraverso una serie di indagini per corruzione. Da allora i gulenisti sono stati licenziati o sono entrati in clandestinità.
Oggi la Turchia deve affrontare delle sfide destinate a influire in maniera duratura sulla situazione interna e sui rapporti con l’Occidente.
La prima sfida sta nel mantenere lo stato di diritto e standard accettabili a livello internazionale durante il giro di vite. Il primo impulso di Ankara è stato massimalista, con più di 60.000 dipendenti statali licenziati, tra cui insegnanti, revisori dei conti del governo e giudici. Sebbene le purghe sembrerebbero dirette contro i seguaci di Gülen, i partner occidentali stanno esortando la Turchia alla moderazione e alla cautela nel distinguere i cospiratori dai cittadini innocenti vicini agli insegnamenti di Gülen.
La seconda sfida per Ankara sarà ricucire i rapporti con Washington. Da tempo Gülen vive in un complesso isolato nelle campagne della Pennsylvania e la Turchia ha richiesto l’estradizione del 75enne. Per gli Usa si tratta di una questione legale con i suoi tempi e le sue procedure, ma per Ankara è una questione esistenziale e un eventuale rifiuto verrebbe accolto come una tacita dichiarazione di supporto al colpo di Stato. Un altro motivo di tensione è il sospetto che gli Usa fossero a conoscenza del piano golpista e non abbiano avvertito il governo turco, basato sul fatto che alcuni caccia impiegati nel golpe si sono riforniti presso una base turco-americana. Già si parla di una “virata verso la Russia” e il primo viaggio post golpe di Erdoğan sarà una visita a Vladimir Putin.
In questa fase turbolenta l’Europa può impegnarsi al fine di riavvicinare la Turchia all’alleanza transatlantica e ripristinare la fiducia da entrambe le parti. Il processo di adesione della Turchia all’Ue è travagliato, ma è ancora in corso. Visite contatti e piattaforme di dialogo giocheranno un ruolo decisivo nei mesi a venire.
Un risvolto positivo è la determinazione con cui la società turca si è opposta all’iniziativa antidemocratica. A rispondere all’appello del Presidente Erdoğanla notte del 15 luglio sono stati principalmente i sostenitori dell’AKP, ma anche i laicisti, i Curdi e altri gruppi di opposizione hanno condannato il golpe sin dall’inizio, alimentando un senso di unità che la Turchia non sperimentava da anni. L’invito a visitare il palazzo presidenziale rivolto da Erdoğan ai suoi avversari politici, così come la compresenza del partito di governo e del maggiore partito di opposizione (CHP) a una manifestazione per la democrazia hanno fatto tirare un sospiro di sollievo a molti Turchi.
Si parla di riformare l’esercito, la pubblica amministrazione e la magistratura, mentre in parlamento i maggiori partiti stanno collaborando su pacchetti di riforme. C’è anche una maggiore consapevolezza del fatto che le cariche burocratiche vadano assegnate in base al merito e non in base alla religiosità, all’affiliazione politica o al nepotismo. A due settimane dal golpe sventato, l’opinione pubblica è già (cautamente) ottimista.
Questo potrebbe essere uno dei maggiori vantaggi scaturiti da una serie di tragici eventi. Nonostante gli acciacchi, la Turchia è più che mai determinata a risollevarsi.
I protagonisti del golpe fallito sono stati Erdoğan, i golpisti, ma soprattutto la società civile turca che si è opposta con determinazione allo scippo delle proprie conquiste democratiche
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di geopolitica
Abbonati per un anno alla versione digitale della rivista di geopolitica