La guerra civile nella Repubblica Centrafricana è entrata nel suo terzo anno, mentre restano senza risposta le domande su come fermare le violenze in quella che le Nazioni Unite definiscono “la crisi silenziosa”.

La situazione nel Paese è ancora molto difficile, come testimonia il rapimento della cooperante francese Claudia Criste e del religioso centrafricano Gustave Reosse membro della Congregazione dello Spirito Santo, impegnati nelle attività umanitarie dell’Ong cattolica Coordination diocesaine de la santé (Codis) e sequestrati lunedì scorso a Bangui, mentre si trovavano a bordo di un veicolo adibito al trasporto di medicinali.
L’azione, che fortunatamente si è conclusa con il rilascio dei due membri della Codis, è stata interpretata come atto di ritorsione per l’arresto operato dalle forze ONU stanziate in Centrafrica di Rodrigue Ngaibona, conosciuto come generale Andjilo, uno dei leader delle locali milizie anti-balaka.
Uno scenario reso ancora più complicato dalle prossime elezioni presidenziali previste per febbraio e rinviate al prossimo agosto, cui si aggiunge il ritiro, fissato per marzo, delle forze di pace dell’operazione militare europea EUFOR RCA con il passaggio di competenze alla missione Onu, denominata MINUSCA e forte di 12mila effettivi.
Nella Stato cerniera dell’Africa Centrale, il 24 marzo 2013, ha assunto il potere un gruppo di ribelli chiamato Séléka (che nella locale lingua sango significa “alleanza”), costituito da varie fazioni e gruppi armati che, sotto la guida dell’ex leader dell’Unione delle Forze Democratiche per l’Unità (UFDR) Michel Djotodia, si sono uniti in una coalizione.
Una ribellione che da tempo covava sotto la cenere, culminata con la destituzione del presidente, François Bozizé, reo di non aver rispettato gli accordi di pace stipulati nel 2007, secondo i quali, le fazioni armate che avevano deposto le armi avrebbero dovuto essere smobilitate e reintegrate nell’esercito regolare.
Bozizé si era impadronito del potere con un colpo di Stato contro Ange-FélixPatassé, esattamente dieci anni prima di essere esautorato dai ribelli di Séléka, che di sicuro non hanno accolto con favore l’intenzione dell’ex presidente di cambiare la Costituzione per farsi rieleggere per la terza volta consecutiva, mentre non si erano ancora spenti gli echi della sua contestata vittoria elettorale del gennaio 2011.
Il conflitto in atto in Centrafrica sta arrecando gravi conseguenze alla popolazione che ha sempre più bisogno di assistenza umanitaria, come prova l’annuncio di pochi giorni fa dalla portavoce del Programma alimentare mondiale (Wfp), Elisabeth Byrs, che sulla base dei dati raccolti in un recente rapporto dell’agenzia Onu ha avvertito come in Centrafrica il 30% della popolazione totale, circa 1,5 milioni di persone, si troverebbe in una “situazione di scarsa o grave insicurezza alimentare”.
La Byrs ha inoltre segnalato che la vendita di prodotti agricoli contribuisce al 60% del reddito nazionale centrafricano, per questo la vorticosa diminuzione della produzione alimentare sta riducendo le possibilità di lavoro con gravi effetti sulle finanze delle famiglie, ormai impoverite fino alla fame.
Più di due anni di guerra civile e violenza settaria hanno costretto migliaia di persone alla fuga. Secondo le ultime stime dell’IRIN, aggiornate al 12 gennaio, 448.538 persone sono sfollate all’interno del Paese, mentre 423.300 centrafricani sono ancora rifugiati nei Paesi confinanti, la maggior parte dei quali si trovano in Camerun e Ciad.
Allo stesso tempo, secondo dati forniti dall’UNHCR, oltre 36mila persone sono ancora intrappolate in sette enclave in tutto il paese, tra cui centinaia di membri della minoranza etnica Peuhl, che malnutriti e affetti dalla malaria sperano di trovare asilo negli Stati vicini.
Lo scorso dicembre, il sottosegretario generale dell’ONU per le operazioni di peacekeeping Hervé Ladsous ha lanciato l’allarme su quanto sta accadendo nella Repubblica Centrafricana, denunciando la deriva confessionale delle violenze da tempo in atto tra gli ex ribelli filo-islamici Séléka e le milizie di autodifesa anti-balaka, definite cristiane e appoggiate dai lealisti del deposto Bozizé.
Un aspro confronto che divide il Paese e che finora ha provocato circa 5.000 morti, trascinando la Repubblica Centrafricana nella spirale dello scontro interreligioso con il rischio tangibile di una degenerazione incontrollata della situazione politica e della sicurezza.
E a rendere ancor più drammatico lo scenario, c’è la piaga degli arruolamenti di bambini soldato da parte dei diversi gruppi armati. Dall’esplosione della guerra civile ad oggi, nel Paese africano il numero di ragazze e ragazzi sotto i 18 anni reclutati è quadruplicato, come documentato da Save the Children nel rapporto “Caught in a Combat Zone”, diffuso il mese scorso in occasione dei due anni dallo scoppio della guerra civile.
La più importante organizzazione internazionale indipendente per la difesa dei diritti dei bambini stima che, a fronte dei 2.500 di due anni fa, ora siano circa 10mila i minori impiegati dai gruppi armati centrafricani. Bambine e bambini, che in alcuni casi hanno meno di otto anni, costretti a combattere in prima linea, trasportare i rifornimenti e svolgere altri compiti di supporto. Senza dimenticare, che sono spesso vittime di abusi fisici e mentali da parte dei miliziani.
Per avere un quadro più completo della crisi in atto, è importante sapere che dal 1979, anno della destituzione da parte dei francesi dell’ex-tiranno e autoproclamato imperatore Jéan-Bedel Bokassa, la Repubblica Centrafricana è stato dissanguata da colpi di stato, ripetute rivolte e da una gestione disastrosa che ha prodotto una grave instabilità sociale e la completa dissoluzione del tessuto industriale.
Senza dimenticare, che nonostante il sottosuolo sia ricco di oro, uranio, diamanti e rame, il Centrafrica è sempre posizionato nei bassifondi della classifica dell’Indice di sviluppo umano dell’Undp e invece primeggia nel Fragile State Index, la graduatoria dei Paesi alla deriva, redatta dall’organizzazione di ricerca indipendente Fund for Peace.
La guerra civile nella Repubblica Centrafricana è entrata nel suo terzo anno, mentre restano senza risposta le domande su come fermare le violenze in quella che le Nazioni Unite definiscono “la crisi silenziosa”.