“La ghazwa-e-Hind è inevitabile, il Kashmir verrà liberato, il 1971 sarà vendicato e le vittime di Ahmedabad riceveranno giustizia, in-sha’-Allah”.

Sono le parole pronunciate il 4 dicembre da Hafiz Said, leader di Jamaat-ud-Dawa (JuD), durante un discorso tenuto davanti a migliaia di persone nel centro della città di Lahore, sotto il Minar-e-Pakistan, monumento simbolo del Paese – il luogo in cui, per la prima volta, venne ufficialmente espressa la volontà di dare vita a una nazione pakistana divisa dall’India. JuD è una sostanziale ridenominazione di Lashkar-e-Taiba (LeT), gruppo responsabile di numerosi attentati, tra cui quelli di Mumbai, nel 2008, che provocarono oltre 160 vittime.
L’espressione “Ghazwa-e-Hind” si riferisce a una dottrina, promossa da al-Qaeda, sulla guerra santa contro l’India. Il 1971 è l’anno in cui l’allora Pakistan orientale si separò dal resto del Paese, anche grazie all’aiuto indiano, dando vita al Bangladesh. Le vittime di Ahmedabad sono quelle degli scontri settari che ebbero luogo nella capitale del Gujarat nel 2002, quando al governo vi era l’attuale ministro indiano Narendra Modi. Sul Kashmir non c’è bisogno di aggiungere altro.
È forse questo il simbolo della grande anomalia pakistana, una controversa e multi-sfaccettata realtà, inaccessibile con il solo strumento della logica, persino con quello potente della Realpolitik: il leader di uno dei più temibili gruppi terroristici al mondo, che incita alla guerra santa contro l’India (e Israele), circondato dalle forze dell’ordine pakistane, impiegate affinché l’evento, pubblicizzato in tutto il Paese e diretto via streaming sul web, si svolgesse senza intoppi.
Hafiz Said è tra i più fidati partner dell’intelligence pakistana (Inter-Services Intelligence, ISI): una relazione nata in Afghanistan nei primi anni ’90 (dove LeT operava al fianco dei talebani, contro le milizie della cosiddetta “alleanza del Nord”) e rafforzata negli anni dalla comune ostilità nei confronti dell’India. Rispetto ad altre formazioni attive nel Paese, JuD non ha mai compiuto attacchi contro obiettivi pakistani, ritenendo di fondamentale importanza il principio della massimizzazione delle risorse derivante da una chiara e sempre rispettata scala delle priorità: prima l’India, poi tutto il resto. Gli obiettivi del gruppo, per principio contrario agli attacchi contro i musulmani (sia sunniti sia sciiti), sono sempre stati in linea con gli interessi delle autorità pakistane, e ciò ha consentito il consolidarsi di una partnership che si è sinora dimostrata più forte delle pressioni esercitate dalla comunità internazionale. Troppo importante, per il Pakistan, il ruolo di Hafiz Said e dei suoi seguaci nella infinita disputa sui territori del Kashmir.
Il gruppo dispone di numerose cellule all’estero, in particolare in altri Paesi dell’Asia meridionale e sud-orientale, ma anche in realtà più distanti (in passato, cellule dormienti sono state individuate in Germania, Stati Uniti e Australia). Per livello di organizzazione, LeT viene da molti paragonato al movimento sciita libanese Hizballah. Il suo quartier generale, il complesso di Muridke, si trova a pochi chilometri da Lahore, capoluogo del Punjab, cuore politico e militare del Pakistan. In tutto il Paese, il gruppo gestisce ospedali, scuole, cliniche, moschee e altri servizi. LeT può contare su migliaia di sostenitori, provenienti soprattutto dal Punjab. Si tratta spesso di persone con un livello di istruzione superiore rispetto alla media nazionale e con importanti contatti con le più alte sfere politiche e militari nazionali. Hafiz Said è stato più volte arrestato dalle autorità pakistane, per poi essere sempre rilasciato per mancanza di prove. Egli gode di ampia libertà di movimento nel Paese, un po’ meno sul web, dove il suo account ufficiale su Twitter è stato disattivato il 7 dicembre, a causa della retorica fortemente anti-indiana dei suoi messaggi. Pochi mesi fa aveva rivolto alle autorità di Nuova Delhi l’accusa di “terrorismo idrico”, imputando loro la responsabilità delle alluvioni verificatesi in alcune province pakistane, che hanno provocato numerose vittime.
Alla luce di quanto detto sopra, definire semplicemente un’anomalia il rapporto delle autorità pakistane con il gruppo di Hafiz Said, e più in generale con il terrorismo, potrebbe sembrare riduttivo e forse persino errato, trattandosi in realtà di una vera e propria costante nella breve storia della nazione pakistana. Eppure, per quanto incompleti e parziali, gli sforzi nella lotta al terrorismo compiuti dal Paese negli ultimi mesi non possono essere trascurati.
L’operazione Zarb-e-Azb, lanciata lo scorso 15 giugno nelle aree occidentali del Pakistan al confine con l’Afghanistan, ha sinora provocato la morte di oltre 1.600 presunti terroristi: un colpo molto duro, benché non risolutivo, ai gruppi attivi nel Paese e nel resto della regione. L’intervento militare, che porta la firma del Generale Raheel Sharif – da poco più di un anno capo di stato maggiore delle forze armate pakistane – ha ricevuto il plauso della comunità internazionale, che a più riprese aveva chiesto un’azione decisa contro i numerosi gruppi che avevano le proprie basi in quell’area. Persino i rapporti con gli Stati Uniti stanno vivendo una nuova fase di collaborazione, dopo oltre tre anni di gravi tensioni e scambi di accuse reciproche (in buona sostanza, dal maggio 2011, data della cattura ad Abbottabad di Osama bin-Laden). Una svolta simboleggiata proprio dalla lunga visita negli Stati Uniti (oltre una settimana) del Gen. Sharif, la prima, da oltre quattro anni, di un capo delle forze armate pakistane, e confermata da una serie di importanti avvenimenti verificatisi nelle ultime settimane.
L’8 dicembre, sono ripresi i colloqui organizzati nell’ambito del cosiddetto “US-Pakistan Defence Consultative Group”, piattaforma creata per favorire un migliore coordinamento delle rispettive politiche nel settore della Difesa. Pochi giorni prima, la Camera dei Rappresentanti del Congresso americano aveva approvato nuovi finanziamenti militari per il Pakistan, pur legandone l’effettivo disborso al rispetto di nuove clausole (tra le quali, una effettiva azione di contrasto con il gruppo degli Haqqani). Si tratta, in realtà, di rimborsi per le spese sostenute dalle forze armate pakistane per il supporto alle operazioni militari americane in Afghanistan (il cosiddetto “Coalition Support Fund”, CSF). Dal 2001, gli USA hanno stanziato oltre 28 miliardi di dollari in aiuti militari e non per il Pakistan, 11 dei quali proprio nell’ambito del CSF. Una fonte di finanziamento estremamente preziosa per il Paese, generalmente utilizzata per l’acquisto di armi convenzionali, utili a rafforzare la propria capacità di deterrenza nei confronti di un eventuale attacco indiano.
Questo clima di rinnovata benché moderata fiducia è confermato anche dal recente trasferimento alle autorità pakistane di Latif Mehsud – esponente di spicco del “Tehrik-i-Taliban Pakistan” (TTP), catturato in Afghanistan, nell’ottobre 2013, dalle forze speciali americane e tenuto prigioniero nel carcere di Bagram. Nelle ultime settimane, inoltre, proprio su richiesta di Islamabad gli USA hanno intensificato i raid aerei contro le basi del TTP nell’est dell’Afghanistan, quasi riuscendo, in uno di questi, a eliminare il leader del gruppo, il Mullah Fazlullah.
Che entrambi i Paesi avessero da guadagnare da una più stretta collaborazione nella lotta al terrorismo è sempre stato evidente, e lo dimostra la recente eliminazione, durante un intervento militare pakistano nell’ambito dell’operazione “Zarb-e-Azb”, di Adnan Shukrijumah, capo delle operazioni di al-Qaeda in Pakistan, ideatore di alcuni attentati sventati negli ultimi anni negli Stati Uniti (tra cui uno contro la metropolitana di New York, nel 2008).
Sarebbe sbagliato, tuttavia, attendersi una radicale e completa svolta nell’atteggiamento del Pakistan nei confronti del terrorismo, e il discorso di Hafiz Said al Minar-e-Pakistan rappresenta, a questo proposito, un importante monito. Il simbolo di una grossa anomalia, destinata a rimanere tale ancora per molto tempo, almeno fino a quando Pakistan e India non avranno trovato un modo per convivere in maniera pacifica e proficua, scacciando i demoni che hanno sinora ostacolato il loro sviluppo e quello del resto della regione.
Daniele Grassi è Senior Analyst per IFI Advisory.
“La ghazwa-e-Hind è inevitabile, il Kashmir verrà liberato, il 1971 sarà vendicato e le vittime di Ahmedabad riceveranno giustizia, in-sha’-Allah”.