Un panorama di relazioni intricate nelle quali la guerra sta anche spingendo ad una corsa alla leadership dell’area. Tramontano gli Accordi di Abramo e il sogno di un Medio Oriente pacificato ed emergono ambizioni e attori vecchi e nuovi.
Lo scoppio della guerra a Gaza ha rimesso in discussione tutti gli accordi che Israele aveva sottoscritto da anni con i paesi islamici. Sia quelli più antichi, come con Egitto e Giordania, sia quelli più recenti, ricaduti nell’ambito degli Accordi di Abramo, con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan.
Questo perché il massacro che ha compiuto Hamas, al quale è seguito il bombardamento indiscriminato della striscia di Gaza, non è stato condannato dai paesi arabi, puntando invece il dito sul secondo. Le posizioni occidentali, da quelle arabe, differiscono su questo. I primi, condannano il massacro e riconoscono il diritto a Israele di difendersi, ma allo stesso tempo ammettendo la strage di civili a Gaza, chiedono dalla tregua al cessate il fuoco per permettere l’arrivo di più aiuti. I secondi non tengono in considerazione quanto accaduto il 7 ottobre, accusando Israele del genocidio dei civili a Gaza attraverso i bombardamenti.
Due posizioni che riscrivono la mappa dell’area, fortificando antiche alleanze, rendendo più forti nuovi rapporti e facendo chiaramente emergere alcuni attori.
Gli ultimi due a negare la condanna al massacro del 7 ottobre sono stati Turchia e Giordania. Qualcuno, si è spinto anche oltre. Il presidente turco, Erdogan, che ospita spesso i vertici di Hamas, non vuole perdere, anzi vuole conquistare sempre più, la sua leadership nel mondo arabo. La dichiarazione secondo la quale Hamas opera solo per la liberazione della sua terra e i suoi miliziani sono dei mujaheddin che lottano per la libertà, va proprio in questo senso.
Che Erdogan abbia mire espansionistiche su Gerusalemme, è noto. Il sultano turco farebbe carte false pur di assicurarsi la gestione e la custodia della Spianata delle Moschee, diventando così il punto di riferimento del mondo islamico, facendo concorrenza all’Arabia Saudita che già lo è dal punto di vista religioso e al Qatar che lo è dal punto di vista economico.
In una intervista con la giornalista della Cnn Christiane Amanpour, la regina Rania di Giordania si è rifiutata, a specifica domanda, di condannare il massacro del sette ottobre, parlando di doppio standard occidentale, quando non si condannano le morti dei bombardamenti israeliani. E’ chiaro, pesano le sue origini palestinesi, ma è sintomatico di un sentimento unico nell’area.
Che poi è quanto ha espresso anche il segretario generale dell’Onu, criticato da Israele: quanto successo il 7 è conseguenza delle azioni israeliane, non tenendo però conto che giocando al gioco dell’uovo e della gallina, non si arriverà mai al termine o all’origine della questione. Qualcuno si spinge a dire che il massacro ad opera degli uomini di Gaza sia un atto di resistenza.
Se non li hanno definitivamente affossati, i bombardamenti a Gaza hanno certamente congelato e messo in discussione gli Accordi di Abramo. Ed è un peccato non solo per gli attori, ma per l’intero mondo mediorientale. Un Medioriente pacificato, che però non può prescindere da uno stato indipendente palestinese, è nell’interesse di tutti. Gli accordi non tendevano a pugnalare alle spalle Ramallah, ma semmai potevano servire anche ad ammorbidire le posizioni israeliane e, forse, con un cambio di leadership nei Territori, come auspicato dagli stessi palestinesi, si sarebbe potuto fare un passo avanti. Dopotutto Abu Mazen ha mostrato di camminare con due piedi in una scarpa: da un lato ha lodato gli atti di resistenza palestinesi, dall’altro ha detto, per poi ritrattarlo, che quanto fatto da Hamas non corrisponde al pensiero dei suoi.
In questa situazione i sottoscrittori degli accordi Abramo stanno alla finestra, a guardare. L’alleanza strategica ed economica con Israele è importante, ma certo non si possono giustificare i bombardamenti nei quali muoiono i civili, anche perché i vertici di Hamas vivono all’estero. Stesso discorso per i Sauditi, che sembravano avvicinarsi e che ora, pur consapevoli dell’importanza strategica di un accordo con Israele, devono giocoforza allontanarsi. Anche perché perdono di influenza rispetto al Qatar, che sta diventando il gestore del pallino per la questione degli ostaggi, nodo cruciale della questione; rispetto all’Iran, che aiuta, sostiene e finanzia la “resistenza” palestinese antiisraeliana attraverso Hamas, Hezbollah e Jihad Islamico Palestinese; rispetto alla Turchia che, oltre ad ospitare i vertici dei mujaheddin, è l’unico tra questi paesi che ha rapporti, seppur turbolenti, con Israele. Un panorama di relazioni intricate nelle quali la guerra sta anche spingendo ad una corsa alla leadership dell’area.
Lo scoppio della guerra a Gaza ha rimesso in discussione tutti gli accordi che Israele aveva sottoscritto da anni con i paesi islamici. Sia quelli più antichi, come con Egitto e Giordania, sia quelli più recenti, ricaduti nell’ambito degli Accordi di Abramo, con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan.
Questo perché il massacro che ha compiuto Hamas, al quale è seguito il bombardamento indiscriminato della striscia di Gaza, non è stato condannato dai paesi arabi, puntando invece il dito sul secondo. Le posizioni occidentali, da quelle arabe, differiscono su questo. I primi, condannano il massacro e riconoscono il diritto a Israele di difendersi, ma allo stesso tempo ammettendo la strage di civili a Gaza, chiedono dalla tregua al cessate il fuoco per permettere l’arrivo di più aiuti. I secondi non tengono in considerazione quanto accaduto il 7 ottobre, accusando Israele del genocidio dei civili a Gaza attraverso i bombardamenti.