Sotto accusa le “pratiche commerciali ingiuste”, che hanno decimato le industrie dell’acciaio e dell’alluminio, con grave perdita di posti di lavoro.
Il 2018 volge al termine e, tuttavia, il tempo che stiamo vivendo porta i segni di un grande ritorno al passato. Esattamente un secolo fa, un presidente Americano, all’epoca Woodrow Wilson, annunciava tra i famosi Quattordici punti l’obiettivo di rimuovere le barriere economiche agli scambi commerciali fra stati. Un principio che ha letteralmente rinnovato il mondo, e permesso agli Stati Uniti d’America di costruire intorno ai valori del libero mercato quelle alleanze commerciali diventate tra gli strumenti più importanti della loro politica estera. Cento anni dopo il discorso di Wilson, un altro presidente inizia una rivoluzione che potrebbe mettere in discussione le conquiste del libero mercato ed azzerare i progressi fatti dal Secondo dopoguerra all’era della globalizzazione. Il periodo che, come nessun altro, ha visto crescere gli scambi internazionali, in termini di quantità e di valori delle merci in circolazione.
La rottura di uno dei pilastri della globalizzazione, cioè un mercato di libero scambio, è l’effetto più chiaro delle politiche commerciali attuate dagli Usa da quando Trump è alla Casa Bianca. Il paese che è stato paladino delle libertà, anche commerciali, oggi è il capofila di un movimento di revisione della globalizzazione e protezione degli interessi nazionali. Trump aveva già promesso in campagna elettorale che avrebbe messo mano agli squilibri della bilancia commerciale degli Usa e ha iniziato un braccio di ferro con i fautori del libero mercato, senza mai nascondere una determinazione che ha messo in crisi i rapporti con Cina, Canada, Messico, gli alleati europei ed il Giappone. Scelte contestate dalle élite accademiche americane, dai democratici e da parte dello staff dello stesso presidente, per paura di una nuova guerra di dazi che potrebbero fermare o rallentare il commercio mondiale.
La sua amministrazione ha a lungo esitato prima di adottare le nuove misure protezionistiche e non sono mancati i tentativi di fermarle. C’è chi, come Gary D. Cohn, direttore del Consiglio Economico Nazionale, ha dichiarato di aver provato più volte a convincere Trump almeno a limitare la portata dei dazi. Il dissenso tra i suoi collaboratori ha anche costretto alle dimissioni uno degli uomini chiave della Casa Bianca, Rob Porter che ha lasciato il suo ruolo di “Staff Secretary”, la figura che ha il compito di selezionare tutte le carte ed i dossier che arrivano al presidente. Una funzione “filtro” che non è immune dalle pressioni politiche, delle lobby e di altri gruppi di interesse.
Trump, probabilmente incoraggiato dai risultati della crescita del Pil americano, ha deciso di agire con misure inedite per la loro portata e giustificazione giuridica, ma non del tutto nuove. Misure che in passato si sono rivelate fallimentari e quindi presto abbandonate. Ad esempio, il Presidente Obama provò invano a fermare la concorrenza dell’acciaio cinese nel 2016, con delle tariffe ben più alte di quelle dell’amministrazione Trump. Le misure protezionistiche dello scorso marzo hanno riguardato tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio pari al 25% e al 10% (tranne per alcuni paesi che Trump ha esentato o con i quali sta rinegoziando in chiave bilaterale). Acciaio e alluminio sono tra le dieci più importanti hard commodities del commercio globale: rispettivamente, il secondo e nono bene più venduto sul mercato mondiale. Data la rilevanza di questi due materiali, i dazi hanno scatenato una serie di reazioni a catena da Pechino a Bruxelles, passando da Ankara, e dopo le rappresaglie degli altri paesi le misure più recenti volute dagli Usa interessano anche altri settori produttivi, fino alla tutela dei diritti su brevetti, proprietà industriale e chiaramente tutte le nuove tecnologie e materie prime considerate strategiche, dai superconduttori ai minerali critici come litio e cobalto. Non è certo se le misure adottate da Trump riusciranno a rianimare un settore dell’economia che negli ultimi 30 anni − secondo i dati del Center for international development di Harvard − non è cresciuto di una virgola tra le voci dell’export degli Stati Uniti. Per questo sarà interessante capire se questa volta produrranno i benefici in cui sperano i repubblicani.
Dovremmo leggere questa nuova politica commerciale in chiave elettorale. Il presidente Trump sta dirottando l’attenzione mediatica su un tema che può influenzare il voto di molti americani. La campagna protezionistica è proprio una delle armi che Trump sta usando per conquistare gli indecisi. Il settore dell’acciaio è in una crisi profonda dalla metà dello scorso secolo con dati allarmanti sul fronte occupazionale: restano solo circa 150.000 lavoratori dei 650.000 di settant’anni anni fa. Un’emergenza che riguarda molti stati fra quelli considerati swing states, cioè quelli dove è possibile che le elezioni si vincano per pochi voti di differenza. È il caso della Pennsylvania. Uno stato dove Trump vinse nel novembre 2016, ma i recenti sondaggi indicano un crescente consenso per i candidati democratici.
Emergono tre aspetti importanti sui quali punta il presidente Trump. Nonostante la guerra commerciale sia una prospettiva piena di incognite negative, i suoi tweet e le sue politiche hanno aperto un dibattito sulla globalizzazione e la necessità di correggere alcuni degli effetti perversi della concorrenza con paesi come la Cina. Un argomento che convince fasce sempre più ampie della popolazione. Ecco perché molti elettori, soprattutto i cittadini delusi della globalizzazione, sono sensibili al protezionismo promesso da Trump. Nonostante i timori di chi prevede una perdita di posti di lavoro per altri settori industriali indirettamente colpiti dai dazi e l’aumento dei costi di alcuni beni per i consumatori americani, le imprese non sono spaventate, bensì ottimiste. Secondo i dati diffusi dalla National Federation of Independent Business (NFIB), il clima di fiducia in merito a tasse e occupazione è migliorato da quando Trump è stato eletto. Infine, l’aspetto che più preoccupa è quello dei rapporti fra Usa e World Trade Organization. Trump vuole esser considerato l’outsider che vince il sistema della globalizzazione e vince per gli americani, ed ecco perché ha minacciato che gli Usa potrebbero uscire dal World Trade Organization, che sta valutando se prendere dei provvedimenti sulle misure americane. Il presidente sta giocando molto bene questa partita. Se il WTO dovesse decidere senza punire gli Usa, allora Trump avrà un via libera alla sua politica protezionistica e altri paesi potranno seguire la sua strategia. Se il WTO dovesse decidere contro gli Usa, Trump porterà gli Usa fuori dall’organizzazione, di fatto distruggendo il WTO. Che senso avrebbe la World Trade Organization senza il paese che è storicamente il maggior fautore del free trade ed è ai primi due posti nell’import-export di merci e servizi commerciali? In entrambi i casi, sarà una vittoria politica per Trump.
Questi tre aspetti incoraggiano il tycoon a non indietreggiare sui dazi, giustificati come misure di protezione dell’interesse nazionale, e cercare di consolidare quella visione che aveva descritto nel suo discorso di insediamento a gennaio 2017 dicendo: “ogni decisione su commercio, tasse, immigrazione e affari esteri sarà presa a vantaggio dei lavoratori e delle famiglie americane. Dobbiamo proteggere i nostri confini dalla devastazione di altri paesi che copiano i nostri prodotti, rubano le nostre aziende e distruggono i nostri posti di lavoro”.
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Sotto accusa le “pratiche commerciali ingiuste”, che hanno decimato le industrie dell’acciaio e dell’alluminio, con grave perdita di posti di lavoro.