La guerra nell’est dell’Ucraina non vede scontrarsi solo forze governative e ribelli, ma anche due eserciti sparsi per il mondo che si affrontano sulle pagine dei social network. Forse mai come ora un conflitto etnico-politico ha scatenato sul web un tifo quasi calcistico, che nulla ha a che fare con l’informazione. Nello scontro sordo di due propagande, la verità affonda sempre di più.

C’è una fotografia che rimbalza da Twitter a Facebook, una giovane donna colpita da un colpo di mortaio vicino Donetsk. È riversa nel sangue, una gamba maciullata, e in braccio ha ancora la sua piccola di un paio d’anni. È successo in una città europea nel 2014. Sembra impensabile ma è così. È un crimine atroce, e bisognerebbe cercare di evitare che accadesse ancora, individuare i responsabili e portarli davanti al tribunale internazionale dell’Aja.
E invece quella foto – insieme ad altre – è diventata una sorta di macabra bandiera per due tifoserie che si accusano a vicenda. Compare sui gruppi Facebook pro-Maidan, come dimostrazione delle atrocità commesse dai separatisti nel Donbass, e sulle pagine dei vari gruppi di supporto ai filorussi, che accusano l’esercito di Kiev di bombardare i civili. Non c’è una prova, non c’è una testimonianza attendibile, ci sono solo slogan che contribuiscono ancora di più a nascondere la verità con una cortina fumogena di commenti intrisi di odio. E anche le vittime finiscono in secondo piano.
Quando l’informazione diventa tifo
L’infowar che ha caratterizzato la crisi ucraina fin dall’inizio, aveva già raggiunto un suo grado di perfezione durante la presa della Crimea da parte della Russia. La macchina (dis)informativa messa in moto da Mosca si è oliata strada facendo.
Il Cremlino ha messo in campo non solo una flotta di mezzi d’informazione tradizionali – tra i quali la corazzata all-news RT che trasmette in tutto il mondo in inglese, arabo e spagnolo – ma anche un esercito di utenti di social network che tempestano di commenti i media occidentali. Secondo molti si tratta perlopiù di trolls, finti profili dietro cui si nascondono persone pagate per agitare le acque.
A mesi di distanza, la propaganda a senso unico dei media russi ha ottenuto almeno due effetti, entrambi negativi: quello di scatenare una controffensiva uguale e contraria da parte di alcuni media ucraini e dei gruppi online di supporto, e quello di esportare anche in occidente una faziosità che si dimentica di perseguire la verità.
Considerando il primo effetto, viene da pensare che la risposta della stampa e dell’opinione pubblica pro-Maidan non poteva essere peggiore. Lo abbiamo visto già a giugno in occasione del bombardamento aereo di Lugansk, immediatamente attribuito ai separatisti con argomentazioni complottiste facilmente smontate dalle prove emerse in seguito, con una tecnica in tutto speculare a quella messa in atto dalla Russia dopo l’abbattimento del volo Malaysia Airlines MH17. Lo stiamo vedendo in questi giorni, mentre razzi Grad colpiscono le zone abitate di Lugansk e Donetsk, le due parti si accusano l’un l’altra e Human Rights Watch punta il dito sull’esercito regolare di Kiev.
Visto dall’Italia
La polarizzazione dell’informazione sulla guerra in Donbass ha attecchito anche da noi. Facebook è una selva di gruppi che supportano l’una o l’altra parte. Il meccanismo non potrebbe essere più distorto. L’orientamento politico secondo l’arco parlamentare italiano viene calato nella realtà ucraina, che non ha niente a che vedere.
Neofascisti ed estremisti di destra che osannano le gesta del battaglione Azov (nato dalle formazioni paramilitari di EuroMaidan e che ora combatte in Donbass contro i separatisti); comunisti e simpatizzanti dell’ultrasinistra che vedono nelle repubbliche autoproclamate della Novorossija l’eden marxista-leninista. E sputano odio gli uni contro gli altri.
Ma anche tra chi, pur non appartenendo a categorie politiche estremiste, semplicemente simpatizza per una parte o per l’altra, l’escalation dei toni sembra seguire quella delle bombe. Le minacce sono all’ordine del giorno e chi ha un’opinione discordante ricevere una marea di insulti: il cortocircuito dell’informazione è garantito.
Succede. Il profilo Facebook di Nicolai Lilin, l’autore del best-seller Educazione siberiana, con oltre 70mila like è diventato un catalizzatore di informazione a senso unico, un luogo di discussione i cui partecipanti non sembrano vedere altra verità all’infuori della “versione russa”: i morti di Donetsk e Lugansk sono vittime degli “assassini della giunta golpista di Kiev con la complicità di Usa ed Europa”, come scrive Lilin.
Ma lo stesso accade in maniera uguale e contraria sui vari gruppi Facebook di amicizia Italia-Ucraina, dove i separatisti sono “terroristi che stanno eseguendo stragi nella popolazione locale con il supporto di […] Nicolai Lilin”. Per inciso, Lilin ha querelato per diffamazione uno degli amministratori.
Il paradosso di questo tritacarne di esperti con la verità in tasca, l’informazione equilibrata e non faziosa finisce per diventarlo comunque. Un mio articolo ha ricevuto accuse veementi da una parte per essere stato troppo moderato e dall’altra per essere stato di parte.
Il risultato di questa tragicommedia dell’informazione? La verità è ormai solo un fondale di cui si può fare anche a meno, sul quale gridare slogan e sbandierare le immagini dei morti. Che così muoiono due volte.
La guerra nell’est dell’Ucraina non vede scontrarsi solo forze governative e ribelli, ma anche due eserciti sparsi per il mondo che si affrontano sulle pagine dei social network. Forse mai come ora un conflitto etnico-politico ha scatenato sul web un tifo quasi calcistico, che nulla ha a che fare con l’informazione. Nello scontro sordo di due propagande, la verità affonda sempre di più.