
Il primo Papa latinoamericano, il primo di una grande metropoli, ha rivoluzionato la tradizione eurocentrica dando autonomia alle “Chiese” locali.
Tra gli ultimi Papi, Jorge Mario Bergoglio è quello che è arrivato al soglio pontificio con il bagaglio più “leggero” quanto a rapporti internazionali e viaggi. Nulla di paragonabile ad Angelo Roncalli, che era stato anche nunzio, a Giovanni Battista Montini, che aveva lavorato in Segreteria di Stato e aveva svolto una lunga missione in Polonia, a Karol Wojtyla o a Joseph Ratzinger. Bergoglio, però, ha lineamenti perfetti per il mondo d’oggi. È il primo Papa non europeo, oltre che il primo originario dell’America Latina, cosa che riflette non solo gli equilibri interni all’universo cattolico ma anche quelli più generali del pianeta, segnati dalla fine dell’eurocentrismo e, per dirla in termini bergogliani, dalla prepotente rivincita, in termini di influenza geopolitica, di ex periferie come Russia e Cina, India o Iran. Ed è anche il primo Papa che, nell’epoca delle urbanizzazioni massicce e spesso forzate (oggi più del 50% della popolazione mondiale risiede in grossi centri urbani, quota che all’inizio dell’Ottocento era solo del 5%), abbia vissuto in un agglomerato urbano da 13 milioni di abitanti come Buenos Aires.
Non per caso, quindi, papa Francesco ha cominciato a riflettere questo “mondo nuovo” nelle decisioni relative alla Chiesa. In primo luogo ha aumentato l’autonomia e la responsabilità delle Conferenze episcopali locali, uscendo dalla tradizione “eurocentrica” di Giovani Paolo II e Benedetto XVI, in cui le Chiese locali dovevano soprattutto applicare le direttive che partivano da Roma.
Non solo. Già nei primi due anni di pontificato, con le nomine dei cardinali, papa Francesco ha aperto alle periferie il collegio che dovrà eleggere il prossimo Papa. I cardinali nominati da Giovanni Paolo II erano per il 57% europei, per l’11% dell’America del Nord, per l’11% dell’America del Sud, per il 10% dell’Africa, per il 7% dell’Asia e per il 4% dell’America Centrale. Quelli di Benedetto XVI erano per il 57% europei, per il 13% dell’Asia, per il 12% dell’America del Nord, per il 10% dell’America del Sud e per l’8% dell’Africa (nessuno dell’America Centrale). Con Bergoglio è cambiato (quasi) tutto: i cardinali europei scendono al 37%, quelli dell’America del Sud salgono al 17%, quelli di Asia e Africa al 14% e quelli dell’America del Nord crollano al 6%.
Se poi esploriamo l’universo dei viaggi bergogliani, il trionfo delle “periferie” diventa sin troppo evidente. Dal Brasile visitato nel 2013 alla Turchia, la Corea del Sud e l’Albania del 2014, da Sri Lanka e Filippine, Bosnia ed Erzegovina e Cuba del 2015 ad Armenia, Georgia e Azerbaigian del 2016, fino al recentissimo viaggio in Lituania, Lettonia ed Estonia. Dati alla mano, è chiaro ciò che il cardinale Pietro Parolin, diventato con Bergoglio segretario di Stato dopo una lunga carriera nella diplomazia vaticana, disse nella lectio magistralis tenuta nel 2015 presso il Collegio Teologico del Triveneto: “Ci troviamo di fronte a un approccio che può essere applicato alla geopolitica come pure alla teologia”.
Papa Francesco, insomma, ha operato fin da subito uno sganciamento rispetto all’ancoraggio privilegiato con l’Occidente liberale e capitalista che, pur tra distinguo e spunti critici, era comunque centrale presso i suoi due predecessori: san Giovanni Paolo II, alfiere della lotta di liberazione dal comunismo, e Benedetto XVI, in prima linea nella battaglia culturale per la difesa dei valori, anche rispetto al revanchismo islamico ed islamista.
Papa Francesco, però, non critica l’Occidente “da sinistra” ma “da sopra”. “Il modello”, scrive il Papa, “non è la sfera… dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità”.
Come realizzare quel modello, però? Bergoglio lo spiega nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, il vero manuale della politica estera di un Papa la cui Chiesa ideale è quella che non si limita a enunciare preziosi principi morali ma, invece, accetta di sporcarsi le mani con la realtà. Che preferisce errare tentando che mantenersi pura osservando. Con quattro regole generali. La prima: “Il tempo è superiore allo spazio”. Ovvero: nell’azione politica come nell’evangelizzazione, bisogna “adottare i processi possibili”. Perché, appunto, occorre agire. La seconda: “L’unità prevale sul conflitto”. Ovvero: non bisogna ignorare i conflitti né farsene travolgere, ma risolverli senza demonizzare alcuno. La terza: “La realtà è più importante dell’idea”. “No agli idealismi e ai nominalismi”, scrive il Papa, meglio mettere in pratica. La quarta: “Il tutto è superiore alla parte”. Ovvero: “Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande”, senza farsi bloccare dal breve respiro e dall’interesse particolare.
Si spiegano così certe intuizioni bergogliane che, di volta in volta, hanno fatto alzare più di un sopracciglio anche all’interno della stessa Chiesa cattolica ma che, alla prova dei fatti, si sono rivelate convincenti e in qualche caso profetiche. Pensiamo agli sviluppi recenti nella penisola coreana, al ruolo degli Usa di Donald Trump e agli incontri tra il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, e l’autocrate della Corea del Nord, Kim Jong-un. E ripensiamo alle parole di papa Francesco durante il viaggio del 2014, al suo insistere sul fatto che la riconciliazione e la riunificazione delle due Coree non erano un sogno impossibile. Ricordiamo l’idea della “terza guerra mondiale a pezzetti” che il Papa espresse durante il volo di ritorno e che da allora è la fotografia perfetta del mondo contemporaneo.
Durante quel viaggio, papa Francesco scandalizzò molti dicendo che l’Isis andava combattuto (“È lecito fermare l’aggressore ingiusto”), proprio come ha scandalizzato molti cristiani d’Oriente, che tanto hanno sofferto a causa delle milizie islamiste, chiedendo che non venissero compiute altre stragi nelle aree della Siria ancora controllate dai ribelli e dai jihadisti. Bergoglio non cambia idea, è proprio lo stesso papa che nel settembre del 2013 intervenne per fermare Barack Obama che voleva bombardare la Siria dove erano state impiegate le armi chimiche.
Ma il Papa che vuole una Chiesa pronta a scendere in campo con realismo (“No agli idealismi e ai nominalismi”) è un Papa che non fa il “tifo” ma invita a non demonizzare nessuno (“L’unità prevale sul conflitto”) e a ricercare sempre un bene collettivo (“Il tutto è superiore alla parte”), più ampio della vittoria di questo o quel fronte.
Sono gli stessi principi che hanno ispirato il recentissimo accordo tra il Vaticano e la Repubblica popolare cinese, via via descritto come “svolta storica” o una “resa”. Il cardinale Joseph Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong e protagonista della resistenza della Chiesa cattolica fedele a Roma alle repressioni del regime di Pechino, ha definito l’accordo “un capolavoro di creatività nel dire niente con tante parole”. Altri hanno fatto osservare che i vescovi cinesi saranno scelti dai rappresentanti della diocesi ma il Governo cinese dovrà esprimere la propria approvazione, caso forse unico di tutela politica a una scelta ecclesiale.
Ma queste parti, pure importanti, possono essere considerate superiori a un “tutto” che, pur all’interno di un “accordo pastorale” (così l’ha definito la Santa Sede), ora contempla la prospettiva di un disgelo anche politico e diplomatico tra Cina e Vaticano? L’accordo pone le basi per la creazione di una sola Chiesa cattolica in quella Cina dove da decenni i cattolici fedeli a Roma erano perseguitati e la chiesa “patriottica”, con i vescovi nominati da Pechino per via ministeriale, godeva di tutti i privilegi. Pur con i limiti di cui sopra, l’accordo non segna una formidabile composizione del conflitto nella valorizzazione delle differenze? E se la Chiesa rischia, come dicono alcuni, di essere assoggettata al regime, è anche vero che per la prima volta il regime ha riconosciuto l’influenza pastorale del papato in Cina.
La geopolitica di papa Francesco, dunque, si muove su un crinale sottilissimo che, invece di separare la visione dalla prudenza e il realismo dall’intuizione, prova a unirli. Certo è che le sorprese sono state molte, e che altre ne arriveranno.
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Il primo Papa latinoamericano, il primo di una grande metropoli, ha rivoluzionato la tradizione eurocentrica dando autonomia alle “Chiese” locali.