La prossima Pac richiederà coraggio e lungimiranza per fare fronte al budget ridotto post Brexit e agli impegni assunti con il Green New Deal
Un lavoratore mostra i pomodori in un campo vicino ad Alexandria, nel sud della Romania. REUTERS/Bogdan Cristel
Elaborare una politica agricola comune non è mai stato semplice. A partire dai primi anni Sessanta, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Roma, quando l’Unione europea sostituì le regole dei singoli Stati membri con meccanismi d’intervento comunitari finalizzati a favorire un aumento delle derrate agricole, a prezzi “calmierati”, e garantire adeguati redditi ai produttori in un mercato interno in continua crescita.
Ma in sessant’anni lo scenario di riferimento è profondamente cambiato. E ora che la quinta riforma della Pac – entrata in vigore nel 2015 – sta per scadere, programmarne una prossima fino al 2027 richiederà un concentrato di conoscenze ed esperienze, oltre a una buona dose di coraggio e lungimiranza, con un supplemento di variabili che mai le istituzioni europee, e gli Stati membri, si erano trovati in passato a dover governare.
Le sfide passano dalle conseguenze della Brexit, con le minori risorse che questa comporterà in termini di budget per le casse dell’Ue, all’impegno assunto dall’Unione, con il New European Green Deal, di diventare climaticamente neutra entro il 2050 abbattendo le emissioni inquinanti. Senza dimenticare le crescenti tensioni internazionali che, tra dazi ed embarghi commerciali, rendono sempre più difficile siglare nuovi accordi, bilaterali e multilaterali, nei mercati globali.
L’uscita del Regno Unito dall’Unione, dopo un tira e molla di oltre tre anni e mezzo dall’esito del referendum popolare, a partire dal 1° febbraio scorso vede ora Bruxelles e Londra impegnate in un serrato confronto per definire le modalità del divorzio. I tempi sono particolarmente stretti, perché le parti dovrebbero trovare un’intesa entro la fine del 2020; premesso che le stesse delegazioni tecniche impegnate sul fronte Brexit – soprattutto quella europea, presieduta da Michel Barnier – temono di non riuscire a rispettare questa scadenza vista la complessità, e unicità, del caso. Il Regno Unito è infatti l’unico Stato a lasciare l’Unione, dopo avervi aderito nel 1973, in applicazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Da qui la mole di passaggi, senza precedenti, che si renderanno necessari sul piano giuridico e legislativo per sancire il distacco e il ritorno di Londra allo status di Paese terzo. Ma tutto questo si unisce al rischio di un’uscita definitiva senza un accordo commerciale.
Tra le due sponde della Manica si registrano infatti scambi di merci per circa 300 miliardi di euro l’anno. Flussi di prodotti, molti dei quali agroalimentari, che nel caso di un no deal avrebbero ripercussioni devastanti sul piano economico e sociale. Anche perché in questo contesto, va ricordato, sono di fondamentale importanza le misure di sicurezza sui beni alimentari, non a caso tra i punti qualificanti delle politiche dell’Unione e cardini anche del mio programma di lavoro, come rappresentante dell’Italia, al Parlamento europeo.
Certo, fino alla fine di quest’anno, le relazioni tra il Regno Unito e il resto dell’Europa non registreranno nuovi dazi, né nuovi contingenti sui prodotti in transito. Così come nessun impatto vi sarà sul riconoscimento reciproco delle rispettive eccellenze europee, in particolare Dop e Igp. E comunque, gli 11 mesi a disposizione per negoziare un accordo con regole condivise sono oggettivamente pochi. Per questo non è escluso che le parti, di fronte allo spauracchio di una HardBrexit differita nel tempo che aumenterebbe l’incertezza, e i danni, concordino una proroga di questo periodo transitorio.
Intanto, l’uscita del Regno Unito dall’Unione lascerà un ammanco nel bilancio complessivo Ue stimato in circa 12 miliardi di euro l’anno. Un “buco” che il prossimo Quadro finanziario pluriennale (Qfp) 2021-2027 dovrà in qualche modo colmare. E qui, va da sé che per i 27 Paesi remain la strada si fa in salita. Non solo perché le risorse diminuiscono, ma anche perché in base alle regole Ue gli Stati membri dovranno trovare un accordo sul bilancio all’unanimità.
La Commissione, nel maggio 2018, ha previsto un impegno di spesa per l’Ue-27 pari a 1.134.583 milioni di euro. Una proposta che rispetto al periodo 2014-2020 punta ad aumentare le spese per aree strategiche come ricerca e innovazione, sostegno agli investimenti, migrazione e gestione delle frontiere, sicurezza e difesa; mentre per la Politica di coesione e la Politica agricola comune (Pac), che insieme assorbono circa il 70% del budget complessivo, la stessa proposta prevede tagli, rispettivamente, del 10 e del 15%.
Più ambizioso l’impegno di spesa proposto dal Parlamento. Nel novembre 2018 abbiamo indicato un budget per i prossimi sette anni di 1.324.089 milioni di euro, il 16,7% in più di quanto proposto dalla Commissione. Per coprire questa differenza, abbiamo anche indicato una soluzione praticabile a “basso costo”: passare dall’attuale contribuzione dell’1,1% sul Reddito nazionale lordo (Rnl) dell’Ue-27, proposto dalla Commissione, all’1,3%. Una soluzione che ci consentirebbe di mantenere invariato il finanziamento destinato alla Pac, pari a circa 52 miliardi di euro l’anno, di cui 7 destinati all’Italia, e fare fronte inoltre alla transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, nel segno del New green deal.
Il Consiglio, dal canto suo, nel dicembre scorso sotto la presidenza finlandese ha fatto una proposta preliminare per il prossimo Qfn di 1.087 milioni di euro, pari all’1,07% del Reddito nazionale lordo nell’Ue-27. Proposta sulla quale non è stato raggiunto un accordo, congelando di fatto le trattative.
A questo punto i lavori sono in corso. E per quanto riguarda in specifico la Pac, visti i tempi stretti, non a caso la Commissione ha riconosciuto e adottato una serie di misure, con i regolamenti transitori, finalizzati a prorogare di un anno l’attuale quadro legislativo. Mentre noi, in commissione Agricoltura al Parlamento, abbiamo presentato un emendamento che stabilisce il rinvio dell’entrata in vigore della nuova Pac di un anno, con l’impegno di una proroga di due anni, in pratica con l’entrata in vigore nel 2023, se entro il mese di settembre 2020 la riforma non sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale.
In questo modo, secondo noi, ci sarà il tempo necessario per approfondire i contenuti e la comunicazione del New green deal, che la Commissione europea farà il 31 marzo prossimo. In particolare, avremo l’opportunità di sviscerare il documento e, sulla base dei tre atti legislativi di cui si compone la riforma della Pac, fare in modo che questa anticipi alcuni obiettivi del Green deal senza colpire gli agricoltori, che per noi restano i veri protagonisti della transizione ecologica. Non dimentichiamo, ad esempio, che proprio gli agricoltori negli ultimi dieci anni hanno praticamente dimezzato l’uso di agrofarmaci di sintesi chimica per i trattamenti dei terreni e delle loro colture. Segnali di attenzione e cura dei territori, che oltre a risvolti di convenienza economica evidenziano una sempre maggiore consapevolezza del loro ruolo di “sentinelle” lungo la filiera agroalimentare, “from Farm to Fork”, dal campo alla tavola.
Ultimo, ma non per importanza, tra i motivi del rinvio che abbiamo richiesto per la nuova Pac c’è la delega agli Stati membri sulla predisposizione della Strategia unica nazionale, contenuta nella proposta di riforma, presentata due anni fa dalla Commissione Ue. Una proposta secondo noi irricevibile per i rischi di ri-nazionalizzazione della Pac che comporta, con riflessi negativi per agricoltori e consumatori, oltre che i conflitti che accenderebbe tra Regioni e Unione europea. In pratica, un ritorno al passato con il pericolo di derive sovraniste.
La prossima Pac richiederà coraggio e lungimiranza per fare fronte al budget ridotto post Brexit e agli impegni assunti con il Green New Deal
Un lavoratore mostra i pomodori in un campo vicino ad Alexandria, nel sud della Romania. REUTERS/Bogdan Cristel
Elaborare una politica agricola comune non è mai stato semplice. A partire dai primi anni Sessanta, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Roma, quando l’Unione europea sostituì le regole dei singoli Stati membri con meccanismi d’intervento comunitari finalizzati a favorire un aumento delle derrate agricole, a prezzi “calmierati”, e garantire adeguati redditi ai produttori in un mercato interno in continua crescita.
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