Il 13 agosto scorso, a Bangalore, era in programma un evento organizzato da Amnesty International India – “Broken Families: Denied Acces to Justice in Kashmir” – riguardo le violazioni dei diritti umani. Oltre alle testimonianze di tre famiglie i cui cari sono svaniti nel nulla –dall’89, intorno alle 8.000 persone sono sparite senza lasciare traccia – era prevista inoltre l’esibizione di un noto rapper della valle.
MC Kash, all’anagrafe Roushan Illahi, nel 2010 era salito alla ribalta con un brano intitolato “I protest”, in poche settimane diventato l’inno della rivolta kashmiri e dei kanijung walla – il nome dei lanciatori di pietre. Con un testo tagliente e infuocato, la canzone si chiudeva con l’elenco delle 120 vittime di quell’estate, che ricorda per alcuni versi quella attuale.
Roushan, 26 anni, con la sua musica cerca di dare voce a quella generazione nata all’ombra delle armi negli anni ’90, cresciuta nelle strade che allo stesso tempo erano campo di battaglia e di gioco. Non gli è permesso esibirsi in Kashmir, e le forze dell’ordine hanno ripetutamente fatto irruzione nel suo studio di registrazione, danneggiando la sua attrezzatura.
“Sono venuto a Bangalore come un artista Hip Hop del Kashmir con tanto da dire e raccontare. Comunque, mi aspettavo quello che tutti i kashmiri si aspettano quando vanno in India e, in tutta franchezza, lo stato indiano non ha deluso le aspettative”. Ha scritto in un accorato post su facebook.
Ecco come si sono svolti i fatti.
La performance doveva iniziare alle 8 di sera. Ma appena fuori la sala dell’evento, la polizia di Bangalore ha circondato il rapper, negandogli l’accesso e minacciandolo.
“Sono rimasto loro ostaggio per 20 minuti. Mi hanno lasciato entrare solo quando il tempo per esibirmi stava praticamente finendo. Inoltre la polizia ha accerchiato il palco in maniera tale da poter interrompere la mia esibizione in qualsiasi momento.”
Ma le urla d’incitamento da parte dei kashmiri presenti devono aver infuso sicurezza e coraggio in MC Kash che, impugnato il microfono, ha chiesto al pubblico di Bangalore di osservare un minuto di silenzio per la drammatica situazione della valle.
Tuttavia, alle prime note della seconda canzone, le forze dell’ordine hanno ordinato all’operatore di staccare la musica. Il microfono è stato ammutolito. Nel giro di pochi secondi la situazione è esplosa nella sala e gli slogan per l’azadi – “libertà” in urdu – hanno risuonato nell’aria.
Nei giorni seguenti, attivisti del ABVP – Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad – organizzazione studentesca del BJP, hanno organizzato una manifestazione contro l’evento, etichettandolo come anti-nazionale e pro-Pakistan, e presentando una denuncia alla polizia nei confronti di Amnesty International India, accusando l’organizzazione, tra le altre cose, di sedizione. Non soddisfatti, gli attivisti hanno anche richiesto l’arresto di tutti i kashmiri presenti quel giorno allo United Theological College of Bangalore.
Questa l’invettiva di chiusura del post di MC Kash:
“E’ così che l’India tratta le genuine voci kashmiri. Non importa se sei un giovane artista che spera di raccontare delle storie oppure una vittima dell’oppressione indiana che spera di trovare solidarietà nell’ascolto di indiani interessati. Non sei autorizzato. Se non ti fermano i fascisti, la polizia lo farà”.
Il 13 agosto scorso, a Bangalore, era in programma un evento organizzato da Amnesty International India – “Broken Families: Denied Acces to Justice in Kashmir” – riguardo le violazioni dei diritti umani. Oltre alle testimonianze di tre famiglie i cui cari sono svaniti nel nulla –dall’89, intorno alle 8.000 persone sono sparite senza lasciare traccia – era prevista inoltre l’esibizione di un noto rapper della valle.