“Alter Egos”, li ha definiti Mark Landler, reporter del New York Times, in un saggio di recente pubblicazione, il cui sottotitolo chiarisce di chi si sta parlando: “Hillary Clinton, Barack Obama, and the Twilight Struggle Over American Power”. E adesso che l’ex first lady è diventata ufficialmente la candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti diventa naturale chiedersi quale sarà la politica estera della sua amministrazione, in caso di vittoria contro Trump, se e come la dottrina Hillary divergerà da quella del suo predecessore, soprattutto riguardo al Medio Oriente.
Jeffrey Goldberg, giornalista dell’Atlantic, autore del più compiuto ritratto della politica estera obamiana, sostiene che tra i due ci siano differenze profonde in materia di sicurezza nazionale, sia a livello di prospettive che di approccio. Non solo Hillary ha una sorta di pregiudizio a favore dell’azione, mentre Obama è più esitante, più concentrato sulle conseguenze; le distanze riguardano anche il modo in cui viene concepito il ruolo dell’America nel mondo e le qualità che la rendono “eccezionale”. L’intervista di Goldberg a Landler – autore ad aprile di un citatissimo pezzo sull’ex segretario di Stato,”How Hillary Clinton became an hawk” – è un’ottima guida per avvicinarsi alla dottrina Hillary.
Landler sostiene che tanto Obama quanto la Clinton possono essere considerati degli internazionalisti liberali. Hillary, però, è più incline ad usare la forza – tanto ad avere sostenuto spesso, nei dibattiti interni all’amministrazione, l’opzione più interventista – ed è meno scettica nei confronti delle soluzioni proposte, in materia di politica estera, dall’establishment politico-militare (quello che il presidente, nell’intervista all’Atlantic, chiama il “Washington playbook”). Obama, influenzato dal pensiero realista di personaggi come Brent Scowcroft, ex consigliere di Bush, ritiene che gli Stati Uniti debbano agire quando sono in gioco “interessi nazionali vitali”, ma la sua definizione di interessi nazionali vitali è molto più ristretta rispetto a quella dell’establishment (“Quali sono i nostri interessi vitali in Ucraina?”, chiese una volta il presidente, durante una cena con alcuni esperti di politica estera). Vali Nasr, collaboratore dello scomparso Richard Holbrooke, che fu braccio destro della Clinton e consigliere speciale per l’Afghanistan e il Pakistan, ha chiamato “The Dispensable Nation” il suo saggio critico della politica estera obamiana. Con Barack, insomma, la retorica della “nazione indispensabile”, è stata mandata in soffitta.
Sarebbe un errore, dice Landler, credere però che Hillary farebbe a pezzi lo spartito scritto dall’attuale presidente. Non ci sarebbe una rottura sul piano dottrinale, quanto piuttosto un aggiustamento, una ricalibratura delle posizioni. È vero che la Clinton spinse per l’intervento americano in Libia nel 2011, ma solo dopo avere imbarcato all’interno della coalizione gli europei e la Lega Araba, quindi dopo avere creato un vasto consenso internazionale e regionale.
Proprio la guerra libica racconta le diverse sensibilità dei due personaggi. Hillary si batté per strappare all’Onu l’assenso alla no fly zone, che fu la premessa dell’intervento. Convinse all’azione un presidente riluttante, fiduciosa nella futura classe dirigente libica, rappresentata da Mahmoud Jibril. Il disastro successivo alla caduta di Gheddafi ha confermato ad Obama la bontà dei propri istinti. Hillary continua a credere che la vicenda nordafricana sia ancora un work in progress, e che il caos sia soprattutto la conseguenza del rifiuto libico ad accettare una forza di sicurezza internazionale per stabilizzare il Paese, una volta defenestrato il raìs.
Nessuna rivoluzione, però, sarebbe in vista alla Casa Bianca, secondo Landler. Anche se la Clinton, sul piano teorico,” è più vicina a John McCain che a Obama, dato il suo pragmatismo, governerebbe in maniera più prudente di McCain”. Probabilmente ci sarebbe una ricalibratura della policy americana in Siria; già nel 2012 Hillary era favorevole ad un sostegno più consistente ai ribelli e più volte si è espressa a favore della creazione di una no fly zone, in funzione anti-regime. Cercherebbe, in sostanza, di cambiare l’equazione sul campo, mentre Obama ha sempre proceduto a piccoli passi – contando solo sulle forze speciali- convinto che cambiare l’equazione sul campo equivalesse a un maggiore intervento militare. Quindi, conclude Landler, un’amministrazione Clinton spingerebbe forse per una no fly zone, per la creazione di corridoi umanitari e, dato lo squilibrio di forze determinato dall’intervento russo, potrebbe persino fornire ai ribelli quegli aiuti bellici che chiedono da tempo, come i missili terra-aria manpad (Obama si è sempre opposto, temendo che le armi potessero finire nelle mani sbagliate).
Fu la stessa Hillary a coniare l’espressione Pivot to Asia, per indicare il necessario ribilanciamento della politica estera dal Medio all’Estremo Oriente, vera sfida geopolitica del XXI secolo. Invece il Pivot to Asia è rimasto sulla carta e il mondo arabo resterà il cuore delle preoccupazioni americane. Hillary sarebbe forse più vicina ad Israele, ma la ricerca di un accordo coi palestinesi potrebbe metterla in rotta di collisione con Netanyahu. Avrebbe, come è evidente, una posizione più muscolare nei confronti della Russia – mentre adesso John Kerry è alla disperata ricerca di un accordo sulla Siria con Lavrov – soprattutto rispetto a Trump, per alcuni vero e proprio “siberian candidate”, dopo lo scandalo delle mail hackerate del comitato nazionale democratico. Quanto all’Iran, da segretario di Stato Hillary era stata piuttosto scettica sull’esito dei colloqui segreti con Teheran, e durante le trattative aveva recitato la parte del poliziotto cattivo, costruendo il consenso internazionale intorno alle sanzioni. Nel caso salisse alla presidenza, però, cercherebbe di rafforzare l’Iran Deal, anche se sarebbe più decisa nel tornare alle sanzioni, nell’eventualità di violazioni di accordi internazionali da parte degli ayatollah (ad esempio quello sui missili balistici).
Riguardo agli advisor di politica estera, Landler cita, oltre a Bill Clinton, Jake Sullivan, il neo-con Robert Kagan, Strobe Talbott, Martin Indyk e soprattutto Sidney Blumenthal, il controverso personaggio che fu la principale fonte di informazioni sulla Libia. Tra gli attuali consiglieri di Hillary c’è invece Leon Panetta, ex capo della Cia e del Pentagono, fautore di una politica più interventista in Siria. Una presidenza Clinton, ha detto Panetta alla Cnn, renderebbe più “energica” la strategia siriana: no fly zone, sostegno all’opposizione ad Assad, allargamento delle operazioni delle forze speciali contro lo Stato Islamico. La ricetta Panetta, insomma (intervenuto alla Cbs, l’ex capo del Pentagono ha detto che gli Stati Uniti dovrebbero allargare gli sforzi militari, aumentare gli strike aerei contro l’Isis e mettere pressione anche su Assad, soprattutto attraverso la Russia).
Un altro consigliere della campagna di Hillary, Jeremy Bash, ex chief of staff del Pentagono e della Cia, si è spinto ancora più avanti, in un’intervista al Telegraph: la prima mossa chiave della politica estera dell’amministrazione Clinton sarà quella di ordinare una “piena revisione” della strategia americana in Siria, in modo da enfatizzare la natura “assassina” del governo di Assad. Secondo Bash, con Hillary ci sarebbe un’escalation della lotta sia all’Isis che al regime alawita.
Uno dei maggiori esperti della guerra civile in Siria, Aron Lund, sostiene invece che si tratta in gran parte di una postura elettorale. L’obiettivo della Clinton, insomma, sarebbe quello di prendere le distanze da Obama sul dossier siriano, in modo da recidere qualsiasi collegamento con il caos in atto a Damasco. Un compito, questo, che è affidato soprattutto ai suoi consiglieri, non ai comizi, nei quali la candidata resta più prudente. Quando Hillary valuterà tutte le ipotesi di escalation, scrive Lund, si accorgerà che sono troppo poche e troppo complicate. Anche Robert Ford, ultimo ambasciatore americano in Siria, adesso Senior Fellow del Middle East Institute, sostiene che non bisogna lasciarsi troppo condizionare da certe uscite mediatiche: anche tra gli advisor dell’ex first lady c’è una fazione meno incline all’allargamento dell’intervento militare in Siria.
Un’altra lettura utile per capire la possibile evoluzione della politica estera americana è l’editoriale, uscito sul Washington Post, di Michele Flournoy, fondatrice del Center for a New American Security, candidata numero al Pentagono in caso di vittoria di Hilllary (“A four-point strategy for defeating the Islamic State”). Anzitutto, gli Stati Uniti dovrebbero aumentare il sostegno ai gruppi armati locali i cui interessi risultino accettabili agli americani, che combattano l’Isis oppure Assad. Poi dovrebbero espandere i raid contro i leader dello Stato Islamico e fornire più consiglieri sul campo (come già sta facendo Obama). La Flournoy scrive anche che si dovrebbero considerare “limitate opzioni militari”, attraverso l’uso di missili ed armi a lungi raggio, per impedire al regime di Assad e ai russi di lanciare bombe contro i civili e contro i gruppi moderati di opposizione, senza però arrivare a un’escalation militare ancora più grande (leggi: il confronto con Mosca). Gli Usa non dovrebbero conquistare e mantenere porzioni di territorio, un compito assegnato unicamente alle forze locali. No boots on the ground, dunque, ma un allargamento della campagna aerea.
Washington dovrebbe ottenere un maggiore impegno da parte degli attori esterni. Del resto, un’espansione delle attività americane sarebbe ben visto da Turchia ed Arabia Saudita, ed aumenterebbe il leverage nei confronti di Russia ed Iran. Infine, gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi sulla governance locale, offrendo sostegno alle strutture municipali e consentendo loro di fornire servizi ai cittadini e cacciare agli estremisti. Vasto programma, perché, come dice la Flournoy, in Siria “non ci sono opzioni facili o buone, ma solo opzioni migliori ed opzioni peggiori”.