
La stretta di Trump sui visti qualificati fa sbocciare la Silicon Valley a Guadalajara, dove ci sono i giganti del settore hi-tech e centinaia di startup.
Innovazione non è la prima parola che viene in mente quando si pensa al Messico. Non lo è per i suoi stessi abitanti, meno che mai per gli stranieri. In Italia ad esempio, complici la lontananza geografica e la scarsa presenza sui media, il Messico evoca molto più spesso immagini di bottiglie di tequila, di peperoncini e di suonatori mariachi con vistosi sombrero in testa.
Il cuore della cultura tipica messicana è lo stato occidentale di Jalisco, un vero e proprio concentrato di folklore che può legittimamente fregiarsi del motto Jalisco es México, “Jalisco è il Messico”. A Jalisco sono di casa le distillerie di tequila, le salse piccanti, gli spettacoli di rodeo (charreada), la musica mariachi e la celebre danza del cappello (jarabe tapatío). Eppure proprio qui, nella terra dell’agave e della “messicanità”, sorge quanto di più lontano esiste dalla tradizione: una Silicon Valley, emblema di modernità e tecnologia.
La cosiddetta Silicon Valley messicana è Guadalajara, la capitale del Jalisco nonché seconda area metropolitana più popolosa della nazione, già soprannominata – con un certo orgoglio civico – “La perla dell’Occidente” e “La Firenze d’America”. Il paragone con l’originale valle californiana è motivato dalla quantità di investimenti esteri nel settore informatico che Guadalajara ha saputo attirare in questi ultimi anni. Oggi la città ospita non soltanto le sedi di grosse imprese come Intel, IBM, Hewlett-Packard e Dell, ma anche centinaia di startup, piccole e dinamiche.
A partire dagli anni Sessanta diverse aziende straniere – HP e Kodak, entrambe statunitensi, furono tra le prime – iniziarono a spostare parte della produzione a Guadalajara: cercavano manodopera a basso costo ma sufficientemente specializzata che realizzasse i componenti tecnologici di base per i loro apparecchi. Il NAFTA, l’accordo di libero scambio che avrebbe integrato le tre economie del Nordamerica e trasformato il Messico in una media potenza manifatturiera, era ancora lontano. Fino agli anni Ottanta, racconta Andrew Selee nel suo ultimo libro Vanishing Frontiers, tutti i direttori degli stabilimenti di Guadalajara erano americani. Ma nel corso del decennio successivo le cose iniziarono a cambiare: non erano più solo gli operai ad essere messicani, ma anche gli ingegneri, i designer e gli alti dirigenti. Merito della cooperazione tra le imprese e le università locali che, attraverso indirizzi di studio creati ad hoc, cominciarono a sfornare laureati giovani e ben formati. Guadalajara aveva appena imboccato il cammino da polo manifatturiero a centro di progettazione tecnologica. Ma l’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 minacciava di stroncare sul nascere questa trasformazione: Pechino offriva costi di produzione ancora più competitivi di quelli messicani, e così le fabbriche di Guadalajara cancellarono molti posti di lavoro per trasferirli in Asia. Fu un brutto colpo, ma non la fine. L’industria tecnologica resse, e poco dopo la città riprese il suo percorso di specializzazione. Tanto che nei primi anni Duemila arrivò anche il primo modello di stampante HP interamente concepito negli uffici di Guadalajara: l’assemblaggio, invece, era stato affidato agli stabilimenti di Taiwan.
Ancora oggi la manifattura tecnologica continua a rappresentare una porzione importante dell’economia del Jalisco. Ma lo stato – che può contare su un apposito ministero dell’Innovazione – ha un piano ben più ambizioso per la sua capitale: farla evolvere in un hub di innovazione digitale. Il nome del progetto è Ciudad Creativa Digital e si prefigge di ristrutturare tanto l’ambiente urbano quanto la cornice legale in modo da attirare a Guadalajara talenti e investitori e creare le condizioni favorevoli allo sviluppo di startup: sgravi fiscali e incentivi alle nuove imprese dunque, ma anche servizi e collegamenti più efficienti per migliorare la qualità della vita in una città che ha mantenuto tutto l’aspetto e l’atmosfera dell’epoca coloniale. Il progetto, si legge sul sito Internet dedicato, si basa sul masterplan dell’architetto italiano Carlo Ratti del MIT.
Guadalajara è già una piccola “Valle del Silicio” messicana. Ci sono i giganti del settore hi-tech come Oracle, la seconda software house più grande al mondo, che sta perfino cercando nuove persone da assumere nel suo centro di sviluppo nel Jalisco. E poi ci sono centinaia e centinaia di startup. Per la maggior parte sono straniere, statunitensi, che in Guadalajara hanno trovato un’alternativa più economica alla Silicon Valley e più conveniente se si progetta un’espansione. Ma sono sempre di più quelle messicane. Unima, ad esempio, ha sviluppato una tecnologia che aiuta infermieri e medici a diagnosticare rapidamente le malattie nelle zone più remote del Messico, dove i mezzi scarseggiano e gli ospedali sono lontani: basta prelevare al paziente una goccia di sangue, posarla su un particolare dispositivo cartaceo e scattare una foto con una app per smartphone, che provvederà ad analizzarla; i dati ottenuti vengono inoltre archiviati in un cloud in modo da essere disponibili in tempo reale anche al personale sanitario rimasto in laboratorio. Unima ha già attirato le attenzioni di Google e ricevuto investimenti da Y Combinator, uno degli acceleratori di startup più importanti e noti, il cui quartier generale si trova a Mountain View, nella Silicon Valley.
Guadalajara vuole essere una città “creativa” nel senso più ampio possibile, un polo di attrazione per case di produzione cinematografica e televisiva, editori di videogiochi e sviluppatori di app. E possiede il potenziale per crescere ancora. Non mancano intanto le università, come il famoso Istituto tecnologico di Monterrey, né di riflesso il serbatoio di talenti a cui le aziende possono attingere: ingegneri informatici, programmatori e designer, che conoscono l’inglese e spesso anche la cultura americana. Affacciato sull’Oceano Pacifico e contemporaneamente vicino sia agli Stati Uniti che al Sudamerica, il Jalisco può offrire anche una buona posizione geografica a tutte quelle imprese che cercano un luogo in cui installare un centro di gestione e movimento di prodotti e servizi. Forte del suo ecosistema business-friendly, Guadalajara cerca di proporsi alle startup, californiane e non, come una meta alternativa agli Stati Uniti. Ad aiutarla a raggiungere questo obiettivo potrebbe essere – paradossalmente – Donald Trump.
Con la sua retorica e le sue azioni, il presidente americano ha creato incertezza negli investitori che fanno affari in Messico. Intenzionato a sfavorire le delocalizzazioni a sud della frontiera, ha attaccato le case automobilistiche che vi possiedono stabilimenti, ha imposto dazi e ha avviato dei negoziati per modificare il NAFTA minacciando però continuamente di cancellarlo. Le restrizioni di Trump non si limitano al commercio internazionale ma riguardano anche l’immigrazione, compresa quella ad alto grado di specializzazione. Ad aprile 2017 ha firmato un ordine esecutivo per imporre una stretta sui visti H-1B, che permettono alle aziende statunitensi di assumere personale altamente qualificato dall’estero, quasi sempre dall’India. Il programma è fondamentale per le imprese del settore hi-tech, e in particolare per le startup: permette loro di soddisfare l’alta richiesta di informatici e contemporaneamente di mantenersi competitive sul mercato. La Casa Bianca invece le accusa di approfittarsi dei visti per reclutare lavoratori stranieri a basso costo invece di cittadini americani.
Le normative più rigide volute da Trump hanno già portato a un calo delle richieste per i visti H-1B nell’anno fiscale corrente, per la prima volta in cinque anni. Questa e le altre barriere all’immigrazione legale potrebbero farsi insostenibili per le startup, oltre a scoraggiare specialisti e imprenditori stranieri a trasferirsi negli Stati Uniti. Guadalajara ha subito approfittato della situazione per ribaltare la retorica trumpiana. In un’intervista del febbraio 2017 al magazine online Motherboard il governatore del Jalisco Aristóteles Sandoval diceva: “Se gli Stati Uniti chiudono la porta alle persone con un visto e delle capacità, allora apriremo loro le porte qui in Messico, dove non ci sono barriere al talento”. Il sito come2jalisco.com ha pubblicato una lettera aperta alle compagnie tecnologiche con sede in America: comincia registrando le loro preoccupazioni in merito alle nuove politiche sui visti H-1B e poi specifica che il Jalisco è invece pronto ad accogliere talenti da tutto il mondo; l’intento è chiaro fin dal titolo, “Vogliamo te per la Silicon Valley messicana”.
I ripetuti accostamenti alla Silicon Valley non devono però trarre in inganno: Ciudad Creativa Digital è un processo in divenire, non una realtà stabile; per quanto promettente, non è escluso che possa naufragare. Jalisco è la roccaforte del Cartello Nuova Generazione di Jalisco, l’organizzazione criminale più potente del Messico, e Guadalajara è considerata dagli Stati Uniti la capitale messicana del riciclaggio di denaro. Molte startup locali dipendono troppo dai finanziamenti americani, essendo ancora scarsi quelli provenienti da investitori nazionali. Nonostante le ombre che invitano a contenere l’entusiasmo esagerato, la vivacità del territorio messicano è innegabile. Guadalajara è infatti il maggiore, ma non l’unico centro tecnologico del Messico: gli fanno compagnia Aguascalientes, Puebla e Tijuana. C’è tanto silicio a sud della California.
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La stretta di Trump sui visti qualificati fa sbocciare la Silicon Valley a Guadalajara, dove ci sono i giganti del settore hi-tech e centinaia di startup.