L’escalation del terrore è il risultato di un conflitto interno al jihadismo, sostengono molti analisti. Ma diversi segnali indicano un quadro più complesso. Gli attentati potrebbero essere il frutto di un travaso di competenze. E il Pakistan spinge per un’improbabile alleanza
L’Afghanistan è la posta in gioco di una competizione fratricida. A contendersi l’egemonia della militanza armata nel Paese-culla del jihad contemporaneo, i Talebani da una parte, lo Stato islamico dall’altra. L’antagonismo non è recente. Risale almeno a tre anni fa, ma gli attentati degli ultimi dieci giorni hanno reso evidente quel che prima era materia esclusiva degli specialisti. Sabato 20 gennaio, l’assedio all’Hotel Intercontinental: almeno 23 morti rivendicati dai Talebani. Il mercoledì successivo, l’attacco alla sede di Jalalabad di Save the Children: 6 morti rivendicati dallo Stato islamico. Venerdì 26, l’attentato a due passi dall’ospedale Jamhuriat nel cuore di Kabul: almeno 103 i morti, 250 i feriti: i Talebani se ne intestano la paternità. Ieri, 11 soldati afghani morti nell’ennesimo attacco nella capitale afghana. Di nuovo, lo Stato islamico.
Per molti analisti, l’intensificarsi della violenza e delle operazioni militari da parte dei gruppi anti-governativi è il risultato dell’antagonismo tra i Talebani, la vecchia guardia del jihad afghano, e la “provincia del Khorasan“, la branca locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, formalmente istituita nel gennaio del 2015. In parte è così. Ma alcuni segnali, registrati con la consueta attenzione dal ricercatore Antonio Giustozzi, sembrano andare nella direzione contraria, come vedremo.
Quando lo Stato islamico ha fatto il suo ingresso in Afghanistan, tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, i Talebani sono stati presi alla sprovvista. E hanno sottovalutato la minaccia. In quella fase, gli studenti coranici puntavano ai centri urbani, al controllo delle autostrade, e hanno lasciato ampi margini di manovra ai militanti del Khorasan, che ambivano invece alle aree rurali prive sia del controllo governativo che del controllo talebano.
Lo Stato islamico ha provato a radicarsi soprattutto nelle province di Nangarhar e Kunar, nella zona orientale del Paese, al confine con il Pakistan, terra di passaggio fondamentale per un gruppo il cui nucleo originario è costituito perlopiù da ex membri del Tehreek-e-Taliban, i Talebani pachistani. I metodi adottati nelle aree di insediamento non sono però piaciuti ai residenti: troppo brutali, troppo intransigenti questi nuovi barbuti, hanno pensato molti afghani. Dove possibile, si sono create piccole sacche di resistenza. E i Talebani hanno cominciato a temere di perdere influenza, consenso, territori preziosi. Da qui, la decisione di combattere militarmente il gruppo affiliato allo Stato islamico, che nel frattempo aveva reclutato, grazie ad ampie disponibilità finanziarie, diversi ex comandanti talebani afghani: disillusi dalla “casa-madre”, opportunisti in cerca di riscatto, sostenitori del salafismo-jihadista (alieno ai Talebani di scuola deobandi), guerriglieri privi di bussola dopo l’annuncio della morte dello storico leader dei Talebani, mullah Omar.
Mullah Omar, pur deceduto da tempo, conta ancora. Prima di morire, aveva insistito su un punto cruciale: i Talebani sono una forza di liberazione nazionale. Non intendono danneggiare nessuno Stato estero. Non vogliono attaccare nessun Paese straniero. Solo liberare l’Afghanistan dalle forze di occupazione e instaurare un governo compatibile con il “vero” Islam. Un jihad domestico, interno ai confini nazionali, pur se contaminato dai sostegni esterni.
La partita dello Stato islamico è opposta: i confini vanno travolti, l’agenda è globale, gli obiettivi ben più ambiziosi. Tanto ambiziosi da andarsi a scontrare con quelli dell’altra grande organizzazione del jihadismo contemporaneo: al-Qaeda. Lo Stato islamico e al-Qaeda si contendono l’egemonia del jihad globale. La più circoscritta battaglia tra Talebani e provincia del Khorasan in Afghanistan rientra in quella tra i due attori che monopolizzano risorse e reclute a livello mondiale. I Talebani rientrano nell’orbita di al-Qaeda, e combattendo contro il gruppo del Khorasan combattono anche per mantenere alto il nome dei qaedisti. I quali insistono affinché lo scontro sia duro, senza compromessi. Ma a volte non vengono ascoltati.
Tra i Talebani e lo Stato islamico, infatti, non c’è un rapporto univoco, di semplice ed esclusiva contrapposizione. Ci sono, al contrario, tanti rapporti quante sono le anime dei Talebani, una galassia piuttosto frammentata, e sempre di più divisa dopo la morte del collante simbolico, mullah Omar. Le frizioni tra le varie cupole degli studenti coranici sono aumentate anche per colpa della “provincia del Khorasan”.
Alcune fazioni ritengono controproducente combattere un altro gruppo jihadista, benché in concorrenza. Qualcuno pensa che la battaglia contro i seguaci del Califfo sia una distrazione dall’obiettivo principale: colpire il governo di Kabul e le forze di occupazione. Obiezioni crescenti, che alla fine del 2017 hanno portato il riluttante Haibatullah Akhundzada, attuale numero uno della Shura di Quetta (il massimo organo di coordinamento dei Talebani, ma non riconosciuto da tutte le altre cupole), a cercare canali di comunicazione con gli uomini del Califfo. Ottenendo tregue parziali, precarie. Ma comunque tregue.
I recenti accomodamenti tra Talebani e provincia del Khorasan non preludono a una fusione, che rimane un’ipotesi inverosimile, oggi. E non piacciono a Iran e Russia che, preoccupate per l’espansione dello Stato islamico nel proprio cortile di casa, sollecitano i Talebani allo scontro. Mentre il Pakistan ha già mosso le sue carte per l’obiettivo opposto. L’avvicinamento tra i due gruppi. Il contributo di Islamabad alla definizione dell’agenda della “provincia del Khorasan” ha però creato fratture nel gruppo: oggi esistono due fazioni distinte, operative in aree diverse. La prima, radicata soprattutto nelle province orientali di Nangarhar, Kunar, Nuristan, fa a capo ad Aslam Farooqi, il nuovo “governatore” della “provincia”. L’altra – forte nelle province settentrionali di Badakshan, Jowzyan e Sar-e-pul e composta perlopiù da militanti dell’Asia centrale – fa capo al comandante Moawiya, già membro dell’Islamic Movement of Uzbekistan, che contesta Farooqi proprio perché troppo vicino ai servizi segreti militari del “Paese di puri”.
I rapporti tra Stato islamico e Talebani, dunque, sono complessi. Condizionati anche dalle pressioni degli sponsor. Nei prossimi mesi potrebbero assumere nuove forme. Per ora, quel che è certo è che in alcuni casi c’è stata, se non una vera e propria collaborazione, qualche significativo trasferimento di competenze. Se i seguaci del Califfo sono riusciti a condurre attacchi sanguinosi nel cuore di Kabul è perché hanno reclutato tra le proprie fila diversi membri della rete Haqqani, la fazione più intransingente dei Talebani, la più vicina, da decenni, al jihadismo transnazionale e la meno incline al negoziato. Tra questi, c’è anche Azizullah Haqqani, l’ex responsabile della rete Haqqani per le operazioni complesse nei centri urbani. Molte delle vittime dei giorni scorsi vanno attribuite proprio a lui. E all’inaspettato travaso di competenze jihadiste tra i Talebani e gli antagonisti dello Stato islamico.
@battiston_g
L’escalation del terrore è il risultato di un conflitto interno al jihadismo, sostengono molti analisti. Ma diversi segnali indicano un quadro più complesso. Gli attentati potrebbero essere il frutto di un travaso di competenze. E il Pakistan spinge per un’improbabile alleanza