Il governo venezuelano ha consegnato i verbali dell’elezione del 28 luglio alla Corte Suprema, dominata però dagli alleati. L’opposizione scalpita e denuncia repressione senza limiti. Ma sebbene non piaccia a nessuno, la continuità di Maduro sembra essere l’opzione più conveniente per molti governi della regione.
Il Consiglio Nazionale Elettorale del Venezuela (Cne) ha consegnato tutti i verbali delle elezioni presidenziali del 28 luglio scorso alla Corte Suprema. Dopo dieci giorni di polemiche e intense proteste nelle strade di Caracas, il governo di Nicolás Maduro spera di ottenere dalla Corte la conferma della vittoria del chavismo. Oltre all’attuale presidente venezuelano, sono stati convocati dal massimo tribunale anche i principali leader dell’opposizione: Edmundo González Urrutia, candidato della Plataforma Unitaria Democrática (Pud), proclamatosi vincitore delle elezioni con ampio margine, il presidente della Pud, José Luis Cartaya, e altri candidati come il segretario generale del Movimiento Para Venezuela (Mpv), Simón Calzadilla, o il governatore dello stato di Zulia, Manuel Rosales. Si stima che la Corte emetterà sentenza nel giro di 15 giorni, ma l’opposizione difficilmente ne accetterà il verdetto: i 20 membri dell’attuale Tribunale sono stati scelti dall’Assemblea Nazionale, a maggioranza chavista, nel 2022, in un procedimento che era già stato denunciato per diverse irregolarità. La maggior parte dei giudici della Corte hanno legami diretti col potere politico – basti pensare che uno dei membri, Calixto Ortega, è cognato della first lady, Celia Flores -, e la metà di essi sono stati in passato deputati del governante Psuv.
Il panorama post elettorale in Venezuela è però ancor più complesso di quanto sembra. L’opposizione sostiene che l’ex diplomatico e candidato della destra, González Urrutia, ha ottenuto più del 67% dei voti. Per dimostrarlo, ha pubblicato su una pagina web creata ad hoc, i verbali che gli osservatori del Pud sono riusciti a raccogliere durante la chiusura dei seggi, e che rappresenterebbero circa il 70% del totale. L’analisi delle schede digitalizzate però presenta alcune inconsistenze. Molti dei verbali pubblicati infatti non sono stati firmati dalle autorità del seggio, nemmeno dagli stessi osservatori dell’opposizione, compromettendone dunque la legalità. Insomma, sebbene il sistema elettronico venezuelano sia riconosciuto da entrambe le parti come attendibile, né il governo né l’opposizione possono presentare prove irrefutabili del risultato che dicono di aver raggiunto.
A ciò si aggiungono le perplessità e le riserve presentate a livello internazionale. Russia, Cina, Irán, Bolivia, Cuba e Nicaragua, tra altri, hanno già riconosciuto la legittimità dell’elezione di Maduro. Argentina, Perù, Costa Rica, Panama e Uruguay riconoscono invece Urrutia come presidente eletto. Una posizione piuttosto ambigua è quella assunta dalla Casa Bianca. Il Segretario di Stato Antony Blinken ha rotto gli indugi a 72 ore dall’elezione sostenendo che Urrutia “ha ottenuto la maggioranza dei voti” e che “la volontà dei venezuelani deve essere rispettata”. Poche ore più tardi però, il portavoce dello State Department, Matthew Miller, ha chiarito che gli Usa ancora non riconoscono Urrutia come presidente, e attendono la pubblicazione dei verbali da parte del Cne. L’amministrazione di Joe Biden si era pronunciata sin dall’inizio a favore della mediazione offerta dai presidenti di Brasile, Lula da Silva, Colombia, Gustavo Petro, e Messico, Manuel Lopez Obrador. I tre principali rappresentanti della sinistra latinoamericana che si sono immediatamente smarcati dalla posizione di Maduro e hanno chiesto trasparenza nello scrutinio prima di riconoscere il vincitore. Un’altra esponente del progressismo latinoamericano che ha sorpreso prendendo le distanze dal chavismo è l’ex presidente argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, che ha chiesto a Maduro di rendere pubblici i verbali “in nome della memoria di Hugo Chavez”. Anche la presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, Estela de Carlotto, ha sostenuto che Maduro “sta barando”, e ha chiesto trasparenza. L’unica organizzazione internazionale accolta in Venezuela per osservare le elezioni, il Carter Center, ha abbandonato il paese poche ore dopo la pubblicazione del risultato favorevole a Maduro da parte del Cne ed ha reso noto un comunicato in cui sostiene che “le elezioni presidenziali del 2024 in Venezuela non hanno soddisfatto gli standard internazionali di integrità elettorale e non possono essere considerate democratiche”.
A partire dalle proteste scaturite il lunedì seguente all’elezione, il governo ha riattivato la cosiddetta “Operación Tun Tun”, un protocollo di sicurezza che coinvolge forze di polizia, servizi segreti, e civili per contrastare l’azione “sovversiva” dell’opposizione. Sono stati aperti una pagina web, una app per smartphone e un numero telefonico affinché i venezuelani possano denunciare anonimamente qualunque tipo di attività sospetta dei propri vicini. L’opposizione denuncia che in questo modo si sta incoraggiando la persecuzione delle voci dissidenti. Molti venezuelani hanno deciso direttamente di chiudere i propri account sui social o eliminare alcune app dai propri cellulari per evitare di essere segnalati come “sovversivi”. Il saldo della repressione contro le manifestazioni dell’opposizione è di almeno 11 morti e più di 2000 persone arrestate.
Secondo la narrativa costruita dal governo, l’opposizione guidata da María Corina Machado, storica dirigente della destra venezuelana ed esclusa dalla corsa alla presidenza dal Cne, ha messo in moto un tentativo di colpo di stato subito dopo la chiusura delle urne. La giustizia ha aperto un’inchiesta contro Machado e Urrutia, che negli ultimi giorni sono passati alla clandestinità. Il primo passo del piano, secondo il chavismo, è stato quello di creare scompiglio ai seggi con la scusa di ottenere i verbali dello scrutinio da contraffare. Poi, è stato portato avanti un attacco informatico contro il sistema elettronico del Cne, motivo per il quale il risultato parziale del voto è stato annunciato con diverse ore di ritardo domenica notte, e i verbali sono stati consegnati alla giustizia solo dieci giorni dopo la realizzazione dei comizi.
Per Maduro, Corina Machado è il limite che non è disposto a superare. Qualunque negoziato in vista di una futura transizione politica dovrà essere realizzato senza la presenza della leader oppositrice. Proprio per questo i governi di Messico, Colombia e Brasile, premono per una soluzione diplomatica che permetta al presidente venezuelano e al principale candidato dell’opposizione, González Urrutia, di trattare. Condizione necessaria però affinché ciò avvenga, è la pubblicazione dei verbali delle elezioni di domenica, tenuti sotto chiave da dieci giorni dal Consiglio Elettorale, composto a maggioranza da funzionari che rispondono politicamente al presidente Maduro, e ora in mano al Tribunale Supremo di Giustizia, anch’esso strettamente legato al governo.
Le alternative che si aprono per il futuro della nazione sudamericana ora sono diverse. Maduro potrebbe riuscire ad imporre la propria vittoria, obbligando nuovamente l’opposizione a proclamare un presidente virtuale e senza potere, come già accaduto con Juan Guaidò nel 2019. Una alternativa possibile solo grazie alla fedeltà delle Forze Armate e i Servizi Segreti verso il governo attuale. Ma né la Casa Bianca né la maggioranza dei governi latinoamericani sembrerebbero disposti a ripetere una strategia che si è già dimostrata fallimentare.
Nel caso di una continuità di Maduro al potere, i settori dell’estrema destra latinoamericana, guidati dal governo argentino di Javier Milei, non escludono la possibilità di un intervento internazionale in Venezuela. Sebbene sia molto improbabile una possibilità così drastica in un continente che ha vissuto solo due brevissime guerre nell’ultimo mezzo secolo, non è detto che una vittoria di Donald Trump alle elezioni Usa di novembre non dia maggior forza a proposte estreme. Già durante il suo primo mandato, Trump sostenne la strategia della “pressione totale” per rovesciare il governo venezuelano, col sostegno dei governi conservatori della regione riuniti nel cosiddetto “Gruppo di Lima”.
L’altra possibilità, quella di una transizione pacifica, vede anch’essa seri ostacoli nel cammino. Innanzitutto perché, al di là delle discussioni interne al chavismo sull’opportunità della strada scelta dalla cupola per riaffermare il proprio potere, la coalizione di governo può contare ancora su un appoggio popolare non indifferente, specialmente nelle zone rurali e periferiche del paese. La possibilità di doversi sottomettere a processi sommari una volta consegnato il potere a un governo di transizione o all’opposizione, allontana ancor più i leader di governo, forze armate e polizia dall’idea di affrontare un processo tale.
Ancor più tenendo conto del fatto che dirigenti oppositori come Corina Machado, rappresentano un’ala di ultra destra che attende da anni una rivincita contro il chavismo, e il cui programma politico ed economico è molto più simile a quello ultra-liberista di Javier Milei che alla destra moderata di Urrutia. A Bogotà e a Brasilia lo sanno bene, e per questo cercano di mantenere certa equidistanza nel caos venezuelano, volendo così isolare gli attori più estremi di entrambe le fazioni.
Sebbene piaccia a pochi, dunque, Maduro è l’unica opzione conveniente oggi per moltissimi governi della regione – includendo forse anche l’amministrazione Biden, che quel che meno vorrebbe è una complessa transizione politica nel “giardino di casa” nel pieno della campagna elettorale verso le generali di novembre -, situazione che rende ancor più complesso prevederne il futuro.
Il panorama post elettorale in Venezuela è però ancor più complesso di quanto sembra. L’opposizione sostiene che l’ex diplomatico e candidato della destra, González Urrutia, ha ottenuto più del 67% dei voti. Per dimostrarlo, ha pubblicato su una pagina web creata ad hoc, i verbali che gli osservatori del Pud sono riusciti a raccogliere durante la chiusura dei seggi, e che rappresenterebbero circa il 70% del totale. L’analisi delle schede digitalizzate però presenta alcune inconsistenze. Molti dei verbali pubblicati infatti non sono stati firmati dalle autorità del seggio, nemmeno dagli stessi osservatori dell’opposizione, compromettendone dunque la legalità. Insomma, sebbene il sistema elettronico venezuelano sia riconosciuto da entrambe le parti come attendibile, né il governo né l’opposizione possono presentare prove irrefutabili del risultato che dicono di aver raggiunto.