
Con la rielezione di Ilham Aliyev, il Paese è in marcia, destreggiandosi tra Russia, Turchia e Occidente, grazie al suo ruolo di potenza energetica.
Sospesa tra Est e Ovest, tra l’oscuro passato sovietico e la scintillante modernità nel segno del petrolio, tra equilibri incerti e ambizioni incontrollabili, l’Azerbaijan è la nazione dei contrasti.
Da diversi anni, le sorti del Paese caucasico sono affidate al presidente Ilham Aliyev, in carica dal 2003 e riconfermato alla guida della nazione anche dopo le ultime elezioni presidenziali dello scorso aprile. Aliyev ha trionfato con l’86% delle preferenze, e guiderà il Paese per altri sette anni.
L’esito delle elezioni di aprile – bocciate dall’Osce per presunte irregolarità e per “mancanza di competizione” – è da interpretare come una sorta di verdetto popolare sui risultati raggiunti da Aliyev negli ultimi anni, in particolare in campo economico e in politica estera.
Tra il 2004 e il 2014, grazie al poderoso sviluppo del settore Oil&Gas, l’economia dell’ex repubblica sovietica è infatti cresciuta mediamente del 13% ogni anno, e i tassi di povertà sono diminuiti del 40%. Pur trovandosi al centro di numerose critiche per la natura autoritaria e repressiva del suo governo, per gli arresti dei giornalisti e degli oppositori politici, Aliyev ha anche ottenuto degli indiscutibili successi, e la popolazione azera ne è perfettamente consapevole. Particolarmente apprezzato, da questo punto di vista, è l’approccio di Aliyev in materia di politica estera, specialmente per quel che riguarda l’annosa questione del Nagorno-Karabakh.
Il conflitto, scoppiato nel 1992 tra l’Armenia e l’Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh – dichiaratosi indipendente nel 1991 e tuttora privo del riconoscimento internazionale – culminò con l’occupazione armena della regione, equivalente a circa il 20% del territorio azero. Il Nagorno- Karabakh, in effetti, è riconosciuto a livello internazionale come parte integrante dell’Azerbaijan, ma la maggior parte della popolazione è di etnia armena. Dopo il cessate il fuoco del 1994, ottenuto grazie alla mediazione della Russia, le violazioni della tregua e gli scontri armati tra i contendenti si sono ripetuti con regolarità, raggiungendo un punto critico nel 2016 con la “guerra d’aprile”.
In quell’occasione, l’Azerbaijan riuscì a riprendersi un villaggio e un paio di posizioni strategiche, duemila ettari di terreno in tutto, dimostrando in maniera evidente la propria superiorità militare. Il tema del Nagorno-Karabakh è finito inevitabilmente al centro dell’ultima campagna elettorale azera, ed è stato affrontato da Aliyev anche dopo la conferma della sua rielezione. Nel suo discorso alla nazione, il presidente azero ha affermato che un giorno, in un futuro non troppo lontano, “le elezioni si terranno in tutti i nostri territori”, dichiarandosi pronto a condurre il Paese “verso nuovi trionfi”. Sebbene il 2017 sia stato uno degli anni in cui le scaramucce tra armeni e azeri hanno prodotto meno vittime – circa 50 da ambo le parti – il pericolo di nuovi scontri rimane alto, specialmente se si considera la crescente aggressività della retorica azera e il generale clima di sfiducia che aleggia intorno ai negoziati per la pace, in corso ormai da più di vent’anni.
Una nuova escalation tra Armenia e Azerbaijan, seppur poco probabile, coinvolgerebbe in ogni caso anche Turchia e Russia, le potenze regionali maggiormente interessate al delicato dossier caucasico.
La Turchia condivide con l’Azerbaijan diversi legami religiosi, culturali e linguistici, e a partire dal 2011 – quando l’approccio del presidente Erdogan in politica estera è divenuto più aggressivo – la retorica turca a favore dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan sembra essersi ulteriormente intensificata. La Russia, d’altra parte – pur vendendo armi ad entrambe le parti – possiede due basi militari in Armenia, sua storica alleata, e sembra interessata soprattutto al mantenimento dello status quo. Considerando il progressivo riallineamento geopolitico tra Mosca e Ankara in altri scenari – ad esempio in Siria – una nuova fase di tensioni nel Caucaso potrebbe produrre conseguenze imprevedibili per la stabilità e per gli equilibri dell’intera regione.
“L’escalation di quattro giorni dell’aprile 2016 ha dimostrato che il governo azero è disposto a cambiare lo status quo con la forza – spiega Alex Melikishvili, ricercatore e analista per IHS Markit; – Il confronto militare ha portato a guadagni territoriali molto limitati, ma le conquiste hanno comunque migliorato il morale dei soldati azeri e aumentato la fiducia in Aliyev.
Al momento, sfortunatamente, le violazioni del cessate il fuoco che coinvolgono armi di grosso calibro lungo la linea di contatto che separa i belligeranti sono diventate una “nuova normalità”.
Grazie all’enorme flusso di denaro generato dalle proprie risorse naturali – specialmente dal petrolio – l’Azerbaijan è stato in grado di sviluppare il proprio esercito con grande rapidità, investendo sempre più risorse e destinando cifre via via più consistenti al budget militare. Nel 2018, il budget per la spesa militare dell’Azerbaijan è di ben 1.6 miliardi di dollari, con un incremento superiore al 3% rispetto all’anno precedente (l’Armenia spende meno della metà, e ha meno soldati).
“In questo contesto c’è un reale pericolo di errori di calcolo nella zona di conflitto del Karabakh, che potrebbe degenerare in una guerra interstatale in piena regola – prosegue Melikishvili – Aliyev non ha interesse per una campagna militare lunga e costosa nel Karabakh, un terreno impervio e montagnoso, ma potrebbe decidere di perseguire la politica del rischio calcolato per ottenere guadagni territoriali limitati. Ma non è detto che tutto vada secondo i suoi piani”.
Dopo aver guidato le proteste di aprile ed essere stato eletto premier dell’Armenia, Nikol Pashinian ha confermato la propria disponibilità ad avviare un dialogo con Aliyev sul Nagorno-Karabakh, dichiarandosi pronto a trovare una soluzione pacifica basata “sul diritto all’autodeterminazione”. Il giorno dopo la sua elezione, Pashinian si è recato in visita nei territori occupati – Baku non ha gradito −, e ha affermato che il Nagorno-Karabakh dovrebbe essere incluso nei negoziati per la pace.
D’altra parte, l’Azerbaijan continua a ribadire che la soluzione del conflitto dovrà essere trovata nell’ambito “della legge internazionale”, rimarcando la propria tesi a favore dell’integrità territoriale. Autodeterminazione dei popoli e integrità territoriale, per Armenia e Azerbaijan, sono sempre stati i pilastri attorno ai quali sono ruotate le pretese dei due Paesi sulla regione, e la situazione – anche dopo l’elezione di Pashinian e la conferma di Aliyev – non è cambiata.
Grazie alla sua posizione strategica e alla grande disponibilità di risorse naturali, l’Azerbaijan sembra possedere tutte le carte in regola per divenire un vero e proprio hub energetico sulle nuove vie della seta che collegano la Cina all’Europa, ma anche un partner fondamentale per gli Usa – che sfruttano la zona di sorvolo azera per i propri trasferimenti in Afghanistan – e per l’intero Occidente, che potrebbe scorgere in Baku un prezioso alleato per bilanciare il potere della Russia.
Se Ilham Aliyev riuscirà a compiere passi significativi in materia di diritti umani e libertà d’espressione, senza lasciarsi ingolosire dalla turbolenza politica della vicina Armenia e dalla possibilità di un nuovo intervento militare nel Karabakh, il processo di avvicinamento all’Occidente potrà procedere speditamente, con gran ritmo, e Baku potrà davvero avviarsi verso “nuovi trionfi”.
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Con la rielezione di Ilham Aliyev, il Paese è in marcia, destreggiandosi tra Russia, Turchia e Occidente, grazie al suo ruolo di potenza energetica.