Sonia Gandhi è chiamata a comparire di fronte a un tribunale federale americano. La notizia, senza un veloce riepilogo degli ultimi 40 anni di storia indiana, la si potrebbe scambiare facilmente per una satira di The Onion. Per capirci qualcosa occorre tornare indietro fino agli anni ’70, quando in India per quasi due anni si era instaurata una dittatura (“Ma come? In India una dittatura?” “Eh!”).

La foto qui sopra ritrae Indira Gandhi, primo ministro indiano della dinastia Nehru-Gandhi (non i Gandhi del Mahatma Gandhi) dall’albero genealogico molto interessante: figlia del primo premier dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru; madre del premier Rajiv Gandhi; suocera di Sonia Gandhi, l’attuale presidentessa dell’Indian National Congress (Inc) di origini italiane.
Ad occhio e croce dal 1947 ad oggi, salvo sporadiche incursioni della destra del Bjp, l’India è stata governata a gestione familiare, e anche per Sonia l’italiana vale l’adagio stantìo delle colpe dei padri (leggi suocere) che ricadono sui figli (leggi nuore).
Nel 1975, in risposta alle accuse di brogli elettorali per guadagnarsi la rielezione in parlamento e alle proteste estese a macchie d’olio in tutto il paese, sfruttando una legge costituzionale Indira Gandhi riesce a ottenere dall’allora presidente Ahmed una temporanea sospensione dei diritti civili, dell’attività parlamentare e delle elezioni, accentrando tutto il potere nelle mani del governo da lei presieduto. Presentata come l’extrema ratio per fare i conti con la crisi petrolifera e la minaccia di un’esacerbarsi del conflitto con il Pakistan, l’India entra nel periodo più buio della sua storia post-coloniale, la cosiddetta Emergency.
Per evitare che le contestazioni mettessero ostacoli ai suoi programmi di “ripresa”, Indira Gandhi inizia una repressione sistematica dei suoi oppositori, arrestando preventivamente decine di leader politici tra socialisti, nazionalisti e comunisti, estendendo il pungo di ferro anche alle proteste organizzate da gruppi religiosi. Tra questi i più combattivi erano i sikh del Punjab, gruppo che tra i nuclei locali e la numerosa comunità emigrata nella capitale Delhi subì decine di migliaia di arresti.
L’intransigenza del governo e la tensione nel paese portò ad un’escalation della violenza e alla creazione di un braccio armato sikh deciso a guadagnarsi l’indipendenza e la formazione del Khalistan, uno stato a parte popolato in larga maggioranza dai fedeli sikh. L’Emergency finì ufficialmente nel 1977, ma i continui scontri tra sikh e le autorità governative spinsero Indira, nel 1984, a promuovere l’infame operazione Blue Star, ordinando all’esercito di attaccare il Tempio d’Oro di Amritsar, Punjab, centro della fede sikh e quartier generale dei movimenti indipendentisti.
L’operazione si concluse in un bagno di sangue del quale ancora oggi non è chiaro il numero delle vittime: le cifre ufficiali parlano di quasi 500 morti tra i civili, ma associazioni indipendenti ne riportano almeno dieci volte tanto.
La risposta dei sikh sarebbe andata a colpire il cuore del potere, con lo spettacolare assassino di Indira Gandhi per mano di due sue guardie del corpo di fede sikh, Satwant Singh e Beant Singh, oggi ricordati dai sikh come martiri.
Ma la spirale di violenza non si fermò. La morte di Indira, leader senza dubbio controverso ma molto amato da ampi strati della popolazione – alcuni addirittura la consideravano un’incarnazione di Shakti, la dea madre hindu personificazione dell’energia creatrice cosmica – fece sprofondare il paese nel panico, facendo scattare la scintilla che divampò in feroci spedizioni punitive contro gli appartenenti alla comunità sikh, episodi che oggi conosciamo come i pogrom del 1984.
I dati ufficiali parlano di oltre 8000 morti, 3000 solamente a Delhi, senza contare stupri, torture e pestaggi. L’apparente follia collettiva, come spesso capita in India, era orchestrata da un manipolo di leader del Congress e dalla polizia di Delhi, verità emersa nel corso delle indagini seguite agli incidenti. Ma nonostante centinaia di arresti e sentenze, a quasi trent’anni di distanza, nessuno dei “pezzi grossi” di allora è stato condannato.
E arriviamo finalmente a Sonia Gandhi e al tribunale federale americano. L’organizzazione per i diritti umani Sikhs for Justice ha citato in giudizio Sonia Gandhi, in quanto attuale presidentessa del Congress, per aver protetto i burattinai del 1984, oggi tutti ancora a piede libero e, a volte, saldamente in posizioni di potere all’interno del partito.
I nomi illustri sono tre: Kamal Nath (attuale ministro dello Sviluppo urbano), Sajjan Kumar (ex parlamentare, assolto nonostante le deposizioni di diversi testimoni oculari) e Jagdish Tytler (ex parlamentare ed ex ministro, assolto ma di nuovo imputato con la riapertura delle indagini di quest’anno).
Oltre al procedimento in corso negli Usa – la Gandhi ha 120 giorni di tempo per presentare la propria deposizione – anche in India il caso è stato riaperto, nella speranza di trovare finalmente giustizia e chiarire una volta per tutte una delle pagine più inquietanti della storia indiana.
Sonia Gandhi è chiamata a comparire di fronte a un tribunale federale americano. La notizia, senza un veloce riepilogo degli ultimi 40 anni di storia indiana, la si potrebbe scambiare facilmente per una satira di The Onion. Per capirci qualcosa occorre tornare indietro fino agli anni ’70, quando in India per quasi due anni si era instaurata una dittatura (“Ma come? In India una dittatura?” “Eh!”).