Come è noto, Da’ish sta da tempo subendo una serie di significative battute d’arresto. Ciò comporterà la crescita del numero di combattenti di ritorno nei propri paesi d’origine, come avvenne oltre due decenni fa nel caso dei cosiddetti Arabi Afghani a seguito del jihad contro l’URSS. Gli Stati fronteggeranno così una rinnovata presenza di individui non de-radicalizzati bensì soltanto -spesso temporaneamente- smobilitati. Nonostante questo rischio, la scelta di dialogare con i terroristi rimane un tabù.
Da’ish oggi: difficoltà e debolezze
A seguito della definitiva discesa in campo russa nello scenario siro-iracheno nel 2015, lo Stato Islamico ha iniziato a subire alcune importanti battute d’arresto. Recentemente, la situazione nei territori controllati dal Califfato è ulteriormente peggiorata. Alla metà del maggio scorso il colonnello Steve Warren, portavoce della Coalizione internazionale anti-IS a guida statunitense, ha riferito che lo Stato Islamico aveva dichiarato uno stato di emergenza a Raqqa, la capitale eletta.
Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno si è poi scatenata l’offensiva irachena per liberare Falluja, la città irachena che per prima fu conquistata da Da’ish nel gennaio del 2014.
Soldati della milizia della Mobilitazione Popolare, l’Hashd al-Sha’bi, aiutano la popolazione di Falluja a fuggire, ma circa 50 mila persone sarebbero ancora intrappolate nella città, mentre gli aiuti provengono anche, seppur difficoltosamente, dalla Mezzaluna Rossa. Nonostante le delicate sorti di centri nevralgici come Falluja, è innegabile che Da’ish stia oggi vivendo una fase di inedita difficoltà.
Sebbene ancora in controllo dell’intera provincia di Ninive col suo capoluogo Mosul, dove al-Baghdadi proclamò il Califfato in un venerdì del Ramadan 2014, e di vaste aree della provincia occidentale di alAnbar, in poco più di un anno i jihadisti hanno tuttavia perso importanti città quali Tikrit, Ramadi e Sinjar. Lo scorso aprile il Segretario di Stato americano John Kerry si è spinto ad affermare che IS ha ormai perso il 40% dei territori in precedenza conquistati. Parallelamente, sul fronte siriano, all’inizio di giugno le truppe di Assad si sono sensibilmente avvicinate a Raqqa, capitale eletta del Califfato. Se si pensa che l’esercito siriano non metteva piede nella città dall’agosto del 2014, questo passo potrebbe rappresentare una svolta decisiva per le sorti della lotta contro Da’ish. Anche in territorio libico lo Stato Islamico sta mostrando i segni di una crescente debolezza e all’inizio di giugno le milizie impegnate nell’operazione al-Bunian al-Marsus, guidate dalle forze di Misurata fedeli al governo di Tripoli, hanno annunciato di aver conquistato una caserma poco fuori Sirte, in passato sede delle brigate di Saadi Gheddafi, figlio del defunto colonnello Mu’ammar.
La situazione di Da’ish è dunque problematica anche in una delle aree che più di tutte avevano mostrato al mondo la forza del Califfato. Penetrando in Libia infatti, IS era stato in grado di ottenere fedeltà da gruppi jihadisti dislocati in territori non geograficamente contigui a quelli di origine, mantenendo fede al proprio mantra strategico baq’a wa tamaddud, “rimanere ed espandersi”. A rabbuiare le prospettive califfali sulla Libia concorre anche il recente arresto del tunisino Jihed Chandoul, considerato la mente di IS a Sabrata, il quale ha spiegato di essere tra i responsabili dell’invio dei combattenti tunisini in Siria per conto dello Stato Islamico.
Se fino a pochi mesi fa la dominante dei movimenti interni al Califfato era proprio lo spostamento dei combattenti dal cosiddetto Siraq alla Libia, è ora probabile che i muğahedeen nordafricani inizino a lasciare anche quest’ultima per fare ritorno in Tunisia, Algeria, Marocco, ed Egitto. I dati attendibili sui flussi di combattenti nell’area del Grande Medio Oriente sono di difficile reperimento, ma il trend sopra descritto è già in atto. La conseguenza fondamentale che i governi nazionali dovranno affrontare sarà costituita da una rinnovata presenza interna, incarnata da individui non de-radicalizzati ma solo temporaneamente smobilitati.
Questo amalgama sarà un universo composto da giovani in grado di propagare il loro rinnovato attaccamento alla causa, in possesso di inedite abilità militari e tattiche acquisite sul campo, nonché di connessioni transnazionali potenzialmente riattivabili anche in breve tempo. Nonostante questo, l’idea stessa di un dialogo con i terroristi continua ad essere un tabù. Certo, esistono programmi di prevenzione e counter-radicalization tanto in Europa quanto nei paesi a maggioranza musulmana, sia governativi che condotti da ONG. A mancare sono invece percorsi di de-radicalizzazione, destinati a chi terrorista lo è già. Eppure in passato, Stati come l’Egitto e la Libia sono stati in grado di condurre questi percorsi in modo efficace, producendo esiti positivi e tassi di recidiva molto bassi.
Simili esperienze di de-radicalizzazione politica, attuate a livello collettivo e organizzativo, potrebbero insegnare molto sulle possibili soft strategies da adottare con i foreign fighters di ritorno.
Il tabù del dialogo
Il tentativo di comprendere le soggettività dei terroristi, sia esso condotto con approcci sociologici o politologici, viene spesso scambiato con la volontà di giustificare almeno in parte il ricorso alla violenza. Secondo Carolin Goerzig, il tabù del dialogo è stato istituzionalizzato a tal punto che dagli esperti di terrorismo ci si aspetta lo tramandino alle generazioni più giovani di analisti. La discussione con qualsiasi individuo radicalizzato sembra rappresentare una sorta di glorificazione del terrorismo o, in alternativa, una scelta dettata dalla debolezza e dal riconoscimento di una supposta sconfitta da parte delle autorità nazionali.
In realtà, alcuni esempi del Novecento rivelano come tali opzioni possano rivelarsi vittoriose e costituire uno strumento per rafforzare tanto la stabilità interna quanto la credibilità internazionale dei governi che scelgano di intraprendere simili percorsi. A questo proposito, il caso più rappresentativo è incarnato dalla de-radicalizzazione dei due maggiori gruppi jihadisti egiziani degli ultimi tre decenni del secolo scorso, la Gama’a Islamiya e al-Jihad. Completamente smobilitati nel corso dei primi anni Duemila, vennero presto seguiti dal Gruppo Islamico Combattente Libico, responsabile in passato di tre attentati falliti a Mu’ammar Gheddafi.
Esempi dal passato: le gami’yat egiziane e il “contagio positivo” in Libia
In Egitto, la Gama’a Islamiya e al-Jihad derivavano da un tronco comune di attivismo islamista alternativo alla Fratellanza Musulmana e andato rafforzandosi nel corso degli anni Settanta soprattutto nella politica studentesca e, più tardi, nelle periferie del Cairo e nelle zone rurali dell’Alto Egitto. Indiscutibilmente più diffusa, la Gama’a sviluppò due componenti separate, l’una dedicata alla da’wa , che forniva ai cittadini scuole coraniche, servizi assistenziali e prestiti senza interessi – equiparati dall’Islam all’usura – l’altra militare, cresciuta dalla fine degli anni Ottanta col ritorno di molti combattenti dall’Afghanistan.
Nel corso degli anni Ottanta, i militanti del gruppo erano circa 10 mila, ma il numero dei sostenitori era probabilmente molto superiore. Al-Jihad al contrario, fu sempre di dimensioni più contenute, maggiormente dedito alla clandestinità e con una più spiccata anima para-militare. Il 6 ottobre del 1981, alcuni membri di rilievo della Gama’a e futuri membri di al-Jihad assassinarono il Presidente Anwar al-Sadat durante una parata commemorativa della vittoria nella guerra contro Israele di otto anni prima.
Centinaia di sospettati vennero incarcerati e il nuovo regime di Hosni Mubarak iniziò un confronto violento coi gruppi islamisti, che culminò nel novembre del 1997 col massacro di cinquantotto turisti a Luxor per mano della Gama’a. Durante il processo ad alcuni membri del gruppo nel luglio precedente tuttavia, uno di questi, Muhammad alAmin ‘Abd al-‘Alim, lesse un comunicato firmato da alcuni dei leader allora in carcere che dichiarava un cessate il fuoco unilaterale e imponeva agli affiliati di interrompere le operazioni violente in patria e all’estero.
Due anni più tardi il sostegno all’iniziativa da parte del gruppo era ormai completo e il dialogo con lo Stato si intensificò, gli ideologi intrapresero una profonda revisione dottrinale e dal 2002 iniziarono a pubblicare, con l’aiuto dello Stato, una serie di volumi di murāğa’āt, “ripensamenti”, dettati dalla consapevolezza che la violenza aveva fallito nel suo proposito di trasformare la società.
Nozioni fondamentali come quella di jihad, takfīr e hisba vennero totalmente modificate alla luce di una inedita, profonda autocritica. Pochi anni più tardi al-Jihad seguì l’esempio della Gama’a e tra il 2007 ed il 2010 percorse il proprio itinerario di de-radicalizzazione che già portò Sayyd Imam al-Sharif, uno dei massimi ideologi dell’organizzazione, a pubblicare la Wathiqa Tarshid al-‘Amal al-Jihadi fi Misr wa al-‘Alam, Documento per la razionalizzazione dell’attività jihadista in Egitto e nel mondo. Il testo, apparso anche su alcuni quotidiani egiziani, delegittima la violenza in patria e all’estero, rinnega la liceità dell’uccisione di civili e proibisce la lotta armata contro governanti musulmani. Nel 2009 gli esempi egiziani impattarono oltreconfine sul Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), un movimento di dimensioni assai più ridotte degli omologhi in Egitto, nato all’inizio degli anni Novanta e responsabile di tre attentati falliti a Mu’ammar Gheddafi.
“Il nemico di ieri è l’amico di oggi e questi fratelli sono ora uomini liberi”. Queste furono nel 2010 le parole di Saif al-Islam Gheddafi, il figlio del defunto leader libico che allora si occupò del processo di deradicalizzazione e smobilitazione del LIFG. Alla fine del 2010, il gruppo pubblicò gli Studi Correttivi sulla Comprensione del Jihad, i quali, tra le altre revisioni dottrinali, includevano la proibizione dell’insurrezione violenta.
Una delle guide indiscusse del movimento, Noman Benotman, è stato tra i sostenitori più convinti della smobilitazione e, negli anni successivi, si è dedicato alla diffusione del nuovo messaggio e all’impegno per de-radicalizzare i suoi ex-compagni incarcerati. Oggi è Presidente della Quilliam Foundation di Londra, think tank che combatte l’estremismo e collabora col governo britannico. Con tutta probabilità, nel caso libico il regime per l’attuazione di questo processo ha sfruttato anche la dimensione tribale del corpo sociale, risorsa di cui Mubarak era sprovvisto. Ciononostante, le similitudini tra le vicende dei tre gruppi in Egitto e Libia risultano evidenti.
Prospettive
I processi di dialogo tra gruppi jihadisti e Stato sopra descritti si sono resi possibili allorché, dopo le inevitabili resistenze iniziali, i governi hanno accettato di compiere questa sorta di esperimento di ingegneria sociale. Da entrambe le parti vi erano ovviamente interessi in gioco molto concreti. I movimenti radicali avevano subito perdite ingenti nella repressione governativa. Dal canto loro gli Stati hanno potuto mostrare al mondo un innegabile successo: attraverso il processo di de-radicalizzazione politica infatti, Hosni Mubarak e, in minor misura, Mu’ammar Gheddafi, hanno dimostrato di essere riusciti a sottrarre al bacino di reclutamento di al-Qa’ida centinaia di potenziali combattenti, non eliminando ma di certo ridimensionando la minaccia jihadista del tempo. Affinché anche i governanti odierni possano attuare iniziative simili nel futuro prossimo, non si dovrà aspirare alla de-radicalizzazione dei seguaci dello Stato Islamico, ma concentrarsi invece sui gruppi minori, locali, dotati di orizzonti ed obiettivi prevalentemente nazionali. In questo modo sarà possibile contrapporre una forza di reazione contraria all’attrazione centripeta esercitata dal Califfato, facendo sì che i gruppi non ancora affiliati non vengano risucchiati nella spirale di IS. Una seconda ricaduta positiva che questi processi potrebbero innescare è la creazione di una sorta di effetto domino come quelli verificatisi tra al-Gama’a e al-Jihad e successivamente tra questi due gruppi egiziani ed il Libyan Islamic Fighting Group. Senza dubbio questi percorsi implicano scelte delicate, che richiederanno una propedeutica comprensione delle formazioni con le quali esiste un reale margine di dialogo, ma se davvero, per dirla con le parole di Abu Qatada (Abu Omar) “l’impatto delle revisioni jihadiste sul terrorismo è peggiore di quello di cento mila soldati americani”, il potenziale di questo approccio non deve essere sottovalutato..
Come è noto, Da’ish sta da tempo subendo una serie di significative battute d’arresto. Ciò comporterà la crescita del numero di combattenti di ritorno nei propri paesi d’origine, come avvenne oltre due decenni fa nel caso dei cosiddetti Arabi Afghani a seguito del jihad contro l’URSS. Gli Stati fronteggeranno così una rinnovata presenza di individui non de-radicalizzati bensì soltanto -spesso temporaneamente- smobilitati. Nonostante questo rischio, la scelta di dialogare con i terroristi rimane un tabù.