L’Isis moltiplica i messaggi di propaganda per nascondere i suoi problemi interni. I jihadisti del Levante hanno bisogno di trovare nuove reclute per tenere viva la lotta in Siria e in Iraq. Le perdite, infatti, aumentano, sia in termini di territorio che di vite umane. La sconfitta di Kobane ha costretto lo Stato islamico a rinunciare a centinaia di villaggi tra Siria e Iraq e secondo il Pentagono anche gli attacchi aerei della coalizione anti terrorismo avrebbero ottenuto “importanti risultati”, uccidendo almeno 8500 combattenti.
Non si conosce, però, la cifra totale dei miliziani: i cosiddetti foreign fighters sarebbero almeno 20mila mentre gli indigeni variano a seconda dei territori conquistati.
Ed è proprio tra queste due componenti – quella autoctona e quella immigrata – che crescono gli attriti. I jihadisti stranieri arrivano in queste terre convinti di seguire un ideale comune, di lottare per un califfato globale che in nome dell’islam riunisca popoli diversi in un’unione compatta.
Ma la realtà non è questa: diverse origini significa anche diverse caratteristiche, spesso difficilmente conciliabili.
Quando arrivano in Siria o in Iraq, anche i più invasati non possono fare a meno di notare che ciascun combattente ha una visione diversa dell’obiettivo da raggiungere e che anche tra jihadisti esistono tantissime gradazioni di “ortodossia”.
I più fanatici sembra che siano proprio gli europei, spesso totalmente intolleranti di fronte a chi non rispetta la loro visione religiosa, al punto di minacciare di morte chi fuma una sigaretta.
Associated press riporta la notizia di un ufficiale dell’Isis a cui è stata tagliata la testa proprio per punire il suo vizio di fumare. L’agenzia, però, riferisce anche voci secondo le quali l’ufficiale sarebbe stato ucciso per spionaggio, un’accusa sempre più frequente tra combattenti che si conoscono appena, giunti dalle parti più disparate del globo senza nessuna credenziale.
E oltre ad essere più fanatici, gli stranieri sarebbero più bellicosi degli autoctoni e per questo motivo sono loro a combattere sempre in prima linea.
Ma adesso i fronti si sono moltiplicati: bisogna attaccare i curdi nella Siria settentrionale, altri curdi in Iraq del nord e respingere la morsa dell’esercito iracheno e delle milizie sciite nella zona di Tikrit. Ora serve che anche gli autoctoni siano pronti ad andare al macello, ma sono pochi gli iracheni e i siriani, spesso affiliati a Isis più per necessità che per convinzione, disposti al sacrificio supremo in nome del califfato.
Da parte loro, le reclute locali cominciano a essere ostili con gli stranieri, accusati di godere di un trattamento preferenziale. Chi arriva da fuori, infatti, solitamente percepisce un salario più alto di quello degli indigeni e vive nelle città di grandi dimensioni, dove la coalizione anti Isis, per paura di colpire i civili, compie meno raid aerei. I locali si sentono combattenti di serie B e sempre più spesso si scontrano con i loro colleghi forestieri.
All’inizio di marzo, ad esempio, sembra che un gruppo di siriani si sia rifiutato di eseguire gli ordini di un kuwaitiano che li voleva spedire all’offensiva in Iraq. L’escalation di violenza fa paura a tutti ed è sempre più difficile trovare volontari sul terreno: oggi per convincere un siriano a spingersi sul fronte non bastano neanche 800 dollari di salario, una cifra superiore a quella guadagnata dagli stranieri.
Anche i foreign fighters, quindi, cominciano a stufarsi, e alcuni di loro cercano di tornare a casa attraverso la Turchia. Ma i compagni non sono entusiasti della loro fuga e chi viene beccato a disertare non fa una bella fine. Come una decina di asiatici giustiziati a Raqqa due settimane fa proprio mentre stavano preparando i bagagli. O i dieci uomini che tentavano di attraversare il confine con la Turchia il 10 marzo da alBab, a nord est di Aleppo, riusciti a scappare dalla prigione corrompendo un giudice di sorveglianza. Quando sono arrivati al confine è scoppiata una sparatoria in cui sono morti 5 fuggitivi e 4 miliziani dell’Isis.
Gli scontri interni allo Stato Islamico, quindi, fanno sempre più vittime e il sogno di un califfato unito e compatto per i jihadisti è sempre più lontano.
Ma la propaganda non tradisce debolezze e nasconde ogni divisione interna. Solo giovani coraggiosi come quelli del Syrian Observatory for human rights rivelano le crepe, denunciando i problemi interni all’Isis, come la fucilazione per tradimento di 120 reclute. In un solo mese.
@ceciliatosi