L’arabo è la lingua più in voga sulla K Street di Washington, la strada dei lobbisti in cui si chiudono gli affari e si corteggiano i membri del Congresso. Governi stranieri che manovrano dietro le quinte per proteggere i loro interessi e influenzare la politica estera americana. Julian Pecquet e Abigail Kukura, giornalisti del popolare sito Al Monitor, hanno condotto un’inchiesta dettagliata sui lobbisti del Medio Oriente e del Nordafrica, tracciando un quadro per ogni Paese, valutando oneri degli investimenti, strumenti di influenza e risultati ottenuti.
In testa alla lista delle spese – e la cosa non sorprende – ci sono i regimi sunniti del Golfo, a partire dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita. Abu Dhabi ha investito 13,5 milioni di dollari in attività di lobby, principalmente attraverso il Camstoll Group e l’Harbour Group. Tra i successi Al Monitor annovera la consegna di 15 prigionieri di Guantanamo – segno che gli Emirati sono considerati da Washington un alleato affidabile – nonché la decisione di non rinegoziare gli accordi Open Skies, che hanno aperto il traffico aereo americano alle compagnie di tutto il mondo, comprese quelle del Golfo (l’intesa è contestata dai grandi vettori statunitensi, come Delta, American e United Airlines). Tra le sconfitte si cita il fatto che il deal nucleare con l’Iran non ha ridotto l’aggressività regionale della potenza sciita.
L’Arabia Saudita, invece, ha speso 9,5 milioni di dollari, soprattutto attraverso il MSLGROUP. Riad ha visto ridurre il sostegno americano alla sua guerra in Yemen e non è riuscita ad impedire il voto favorevole del Senato riguardo alla possibilità per i parenti delle vittime dell’11 settembre di intentare causa alla monarchia sunnita, a causa del suo presunto coinvolgimento negli attentati. Al tempo stesso, però, Obama e il leader del GOP al Congresso, Paul Ryan, si sono schierati contro la causa e i media americani non hanno visto alcuna “pistola fumante” nel rapporto redatto nel 2002 sui legami tra gli attentatori e i Saud, report che quest’anno è stato reso pubblico.
Tra le più note associazioni di lobby attive negli Stati Uniti c’è sicuramente l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee): lo Stato ebraico ha investito a K Street 6,9 milioni di dollari. Tra le sconfitte, il sito annovera lo stallo del Congresso sui vari provvedimenti in funzione anti-iraniana. Tra le vittorie, il patto decennale per la sicurezza che Obama ha proposto a Netanyahu (ma che ancora non ha visto la luce). All’interno dei lobbisti non poteva mancare il Qatar – braccio principale la Mercury Public Affairs – con una spesa di 3,4 milioni di dollari: Doha ha ottenuto l’apprezzamento di Washington sugli sforzi finanziari relativi al contro-terrorismo, nonché l’aumento delle pressioni, da parte del Congresso, per accelerare la vendita dei jet da combattimento F-15 (bloccata, però, dall’amministrazione Obama). Il Dipartimento di Stato, d’altra parte, ha bacchettato il Qatar per il sostegno agli jihadisti di Jabhat Fatah al Sham (l’ex fronte Al Nusra, che ha cambiato nome dopo la separazione tattica da Al Qaeda).
Anche il Marocco non lesina sugli investimenti (3,7 milioni di dollari), mirati soprattutto alla questione del Sahara Occidentale (che chiede l’indipendenza da Rabat); gli egiziani (2,29 milioni, main lobbyist il Glover Park Group) hanno strappato la conferma degli aiuti militari, anche se le politiche di al Sisi sono sempre più nel mirino. I palestinesi (1,8 milioni) si sono visti sbloccare 108 milioni di dollari di aiuti che erano stati congelati, i turchi (1,7 milioni di spesa, soprattutto attraverso il Gephardt Group) hanno ottenuto risultati misti (Obama ha condannato il tentativo di golpe, ma l’estradizione di Gulen è tutt’altro che scontata, gli americani sostengono l’azione curda nel Nord-Est della Siria, ma il Congresso ha messo in questione la temporanea alleanza). I kuwaitiani (1,18 milioni) non sono riusciti a farsi sbloccare la vendita di jet F-18 (valore della commessa, 3 miliardi di dollari). Gli altri Paesi, dal Bahrein alla Libia, dall’Iraq all’Algeria, dal Libano alla Giordania, investono cifre inferiori al miliardo di dollari. Dalle attività di lobbying – e quindi dall’indagine – sono esclusi Iran, Oman, Siria, Tunisia e Yemen.
C’è un altro aspetto, poi, del lobbismo che esula dall’indagine di al Monitor. Si tratta dei think tank statunitensi, e quindi della capacità di orientare l’opinione pubblica. Alcuni centri di ricerca americani sono finiti nel mirino delle critiche perché accettano finanziamenti da governi stranieri, il che limiterebbe la neutralità e l’indipendenza dei loro report. Negli ultimi anni una quindicina di think tank di Washington ha ricevuto decine di milioni di dollari da Paesi stranieri. La lista comprende, tra gli altri, pesi massimi come il Brookings Institution, il Center for Strategic and International Studies e l’Atlantic Council. Gli Emirati, ad esempio, hanno finanziato con un milione di dollari la costruzione del nuovo quartier generale del Center for Strategic and International Studies, a due passi dalla Casa Bianca. Il Brookings, dal canto suo, ha strappato dal Qatar un assegno molto più consistente. Nel 2013 ha ottenuto una donazione di 14,8 milioni di dollari, valida per un quadriennio, destinata anche a sostenere le attività della sede di Doha dell’istituto, aperta nel 2008.
L’arabo è la lingua più in voga sulla K Street di Washington, la strada dei lobbisti in cui si chiudono gli affari e si corteggiano i membri del Congresso. Governi stranieri che manovrano dietro le quinte per proteggere i loro interessi e influenzare la politica estera americana. Julian Pecquet e Abigail Kukura, giornalisti del popolare sito Al Monitor, hanno condotto un’inchiesta dettagliata sui lobbisti del Medio Oriente e del Nordafrica, tracciando un quadro per ogni Paese, valutando oneri degli investimenti, strumenti di influenza e risultati ottenuti.