I governi di più di 190 paesi e almeno 80 capi di Stato, da Barack Obama a Xi Jinping: ecco il calibro degli ospiti della sessione più importante finora della Conferenza delle Parti sul clima. La macchina organizzativa e della sicurezza era già mastodontica prima della carneficina terroristica del 13 novembre a Parigi, la città ospite. Nonostante il lutto e l’innalzato livello del rischio, “La Cop21 si terrà”, ha detto il presidente francese François Hollande.
Sotto un cielo spesso così denso di smog da nascondere parte della Tour Eiffel, la conferenza ha assunto un significato nuovo. Sarà il primo grande evento veramente internazionale, dopo i sanguinosi attacchi, tra capi di Stato che ricoprono tutto lo spettro degli atteggiamenti verso il Califfato. Ed è un dato di fatto che l’Isis, che vive del petrolio, non può volere una riduzione del consumo degli idrocarburi nel mondo.
È presto per dire se i 12 giorni di intensi negoziati basteranno per produrre un accordo che impedisca un riscaldamento medio oltre la soglia critica di 2°C sopra i livelli preindustriali —il limite massimo secondo gli scienziati per evitare prima gli effetti catastrofici e poi l’irreversibilità. Siamo lontano ancora: se i paesi terranno fede alle proposte avanzate, la media dell’aumento sarà comunque del 3,5°C.
Nel mondo, molti paesi subiscono già effetti disastrosi del riscaldamento – dagli Usa alla Cina passando dai piccoli paesi in via di sviluppo più vulnerabili – e questo con un riscaldamento medio sotto l’1°C. Quelli che più inquinano, tra cui di nuovo Usa e Cina, oltre all’India e quelli europei, hanno visioni molto divergenti su come procedere senza troppi sacrifici economici.
Interessi nazionali e regionali così marcati sono un forte ostacolo per un accordo, e di più ancora per uno vincolante e non solo un protocollo.
Gli Stati Uniti, che sotto la presidenza di George Bush si sono ritirati dal Trattato di Kyoto, l’unico vincolante contribuendo a farlo fallire, sembrano non volersi impegnare nemmeno questa volta a “target … vincolanti legalmente”, come ha dichiarato il segretario di Stato John Kerry al Financial Times. Il governo statunitense, pur deciso a concludere a Parigi (è l’ultima grande conferenza di Barack Obama) deve fare i conti con un Congresso repubblicano che potrebbe limitare l’impegno Usa all’interesse nazionale.
La Ue ha avvertito Washington che un accordo dovrà essere vincolante e possibilmente includere un processo che permetta di usare gli aiuti per il clima come bastone e carota verso i paesi in via di sviluppo.
Ciò solleva la questione cruciale e altamente controversa che potrebbe decidere se l’accordo ci sarà: i finanziamenti. I paesi in via di sviluppo vogliono di quelli ricchi forniscano aiuti per adattare le economie e le infrastrutture ai danni del riscaldamento, generato in primo luogo proprio dall’industrializzazione dei paesi ricchi. In più, hanno bisogno di investire in tecnologie pulite per tagliare le emissioni di gas serra.
A Copenaghen, per tirare su in barca anche i paesi in via di sviluppo, quelli ricchi si erano impegnati all’ultimo minuto a fornire aiuti per almeno 100 miliardi di euro l’anno entro il 2020. Tuttavia, dice un rapporto Ocse di ottobre, solo 87 miliardi sono stati raccolti.
Secondo alcune Ong, inoltre, riferisce EurActiv, solo un 16% di quelle risorse sono aiuti reali ai paesi poveri, mentre la differenza saranno “finanziamenti senza alcun valore reale”.
Oltre al rischio che i paesi ricchi non mantengano la parola sugli aiuti, com’è successo in passato, i paesi più poveri temono un “riciclaggio” (“greenwashing“) degli aiuti già esistenti. Alcuni obiettivi di sviluppo di base, come l’accesso all’acqua potabile, la sanità e gli aiuti post-disastro, potrebbero facilmente essere riclassificati.
“Non c’è una chiara distinzione tra l’assistenza all’adattamento e quella allo sviluppo”, scrive Samuel Fankhauser del Grantham Research Institute sul cambiamento climatico e l’ambiente della London School of Economics.
Conteggiare i prestiti come aiuti è un altro espediente che potrebbe scoraggiare i paesi in via di sviluppo dal firmare. La Francia ha annunciato che allocherà altri 2 miliardi di euro l’anno portando il contributo francese a 5 miliardi, ma è anche l’unico paese europeo che su 1 miliardo recupererà il 35%.
È qui che entrano in gioco e restano intrappolati nelle dinamiche della cosiddetta “finanza per il clima” gli Indc, vale a dire, i piani formali dei paesi per ridurre le emissioni.
L’India, per esempio, si impegna ad aumentare le emissioni di CO2 e altri gas serra a un ritmo più lento della crescita (7,5% l’anno). Le sue emissioni, tuttavia, potrebbero ammontare alla fine del prossimo decennio a ben nove miliardi di megatoni, una quantità che da sola rappresenterebbe un quinto di quelle totali consentite prima di giocarsi la possibilità del 50% di non oltrepassare la fatidica soglia 2C.
Inoltre, l’impegno indiano è condizionato ad aiuti da parte dei paesi avanzati per 2500 miliardi di dollari. Se questa cifra non sarà disponibile, l’India potrà attribuire il fallimento alla mancanza di finanziamenti.
Le risorse finanziarie per il clima potrebbero rivelarsi l’asso nella manica dei paesi in via di sviluppo. I ministri del neo fondato gruppo V20 – i 20 paesi più vulnerabili e già danneggiati delle mancate misure anti-riscaldamento sono, per esempio, favorevoli a una tassa sulle transazioni finanziarie e altri tipi di finanziamento internazionale. Come argomento possono avanzare anche i 1900 miliardi di dollari di sussidi che “ingrassano ogni anno la ruota del settore dei carburanti fossili nel mondo”, come si legge in un rapporto Oxfam.
Mentre il 2015 è in dirittura di arrivo per diventare l’anno più caldo mai registrato, la speranza è che lasci anche, come nella dichiarazione dei V20, “un accordo valido per la sopravvivenza non negoziabile dei nostri discendenti”.
@GuiomarParada
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I governi di più di 190 paesi e almeno 80 capi di Stato, da Barack Obama a Xi Jinping: ecco il calibro degli ospiti della sessione più importante finora della Conferenza delle Parti sul clima. La macchina organizzativa e della sicurezza era già mastodontica prima della carneficina terroristica del 13 novembre a Parigi, la città ospite. Nonostante il lutto e l’innalzato livello del rischio, “La Cop21 si terrà”, ha detto il presidente francese François Hollande.
Sotto un cielo spesso così denso di smog da nascondere parte della Tour Eiffel, la conferenza ha assunto un significato nuovo. Sarà il primo grande evento veramente internazionale, dopo i sanguinosi attacchi, tra capi di Stato che ricoprono tutto lo spettro degli atteggiamenti verso il Califfato. Ed è un dato di fatto che l’Isis, che vive del petrolio, non può volere una riduzione del consumo degli idrocarburi nel mondo.