I tragici avvenimenti di Parigi hanno assestato un durissimo colpo a un’Europa già stremata dalla crisi economica, ridestando in tutti noi un forte senso di vulnerabilità. Essi hanno inoltre sollevato una lunga serie di domande, ad alcune delle quali cercheremo di dare risposte qui (era possibile prevenire questi attacchi? Chi sono i responsabili? Cosa li ha spinti ad agire?), altre inevitabilmente destinate a rimanere senza risposta.

Senza scendere nei dettagli delle gravi falle evidenziate dall’apparato di sicurezza francese a livello di intelligence, è possibile affermare che gli attacchi potevano forse essere evitati o, perlomeno, contenuti nella loro portata, attraverso un più efficace monitoraggio degli elementi che lo hanno messo a segno, noti da tempo all’intelligence d’Oltralpe, oppure predisponendo talune basilari misure di sicurezza a favore della redazione di Charlie Hebdo, più volte finita nel mirino di gruppi terroristici per la sua irriverente attività editoriale.
Chi ha compiuto questi attacchi? I principali responsabili del raid del 5 gennaio e quello del successivo attacco contro il market kosher di Parigi sono ormai noti, ma quel che preme oggi sapere è chi si cela dietro queste persone.
A più riprese, i fratelli Kouachi hanno dichiarato di agire in nome di al-Qaeda nello Yemen, nota ai più esperti come “Al-Qaeda nella Penisola Arabica” (AQAP), gruppo nato nel 2009 dalla fusione delle cellule yemenita e saudita di al-Qaeda. Pochi giorni dopo, vari esponenti di AQAP hanno espresso il loro sostegno all’azione dei fratelli Kouachi, pur senza spingersi sino all’assunzione diretta di responsabilità. Una possibile spiegazione della mancata rivendicazione potrebbe consistere nel timore della leadership del gruppo di subire la pesante rappresaglia occidentale. Non proclamando la propria diretta responsabilità (peraltro ancora dubbia), AQAP forse spera di non divenire l’oggetto di una intensa campagna militare contro le proprie basi nello Yemen. D’altronde, il gruppo ha già avuto un grande ritorno in termini di immagine e prestigio, confermandosi ancora una volta come la più temibile delle affiliate di al-Qaeda, di gran lunga più organizzata e pericolosa del nucleo storico guidato da Ayman al-Zawahiri.
Al contrario, in un video diffuso l’11 gennaio il responsabile dell’operazione contro il market kosher, Amedy Coulibaly, pur ammettendo i suoi legami con i fratelli Kouachi e dichiarando che i due attacchi erano coordinati, ha proclamato la propria fedeltà allo Stato Islamico, creando molta confusione tra gli esperti in materia di terrorismo. Al-Qaeda e lo Stato Islamico sono infatti acerrimi rivali, come evidenziato dai frequenti scontri armati registrati negli ultimi mesi in Siria (la scissione di Abu Bakr al-Baghdadi da al-Qaeda è stata ufficializzata nel febbraio 2014).
Per alcuni si tratta di un vero e proprio incubo divenuto realtà: al-Qaeda e lo Stato Islamico che uniscono le forze per colpire gli infedeli occidentali. In realtà, ciò potrebbe rappresentare un’ulteriore conferma di quanto siano in molti casi strumentali le rivendicazioni di terroristi mossi più da una non meglio determinata voglia di vendetta nei confronti di una società dalla quale si sentono emarginati che da una vera e propria convinzione ideologica.
Come ogni altro aspetto della nostra vita, anche il terrorismo è divenuto in questi ultimi anni un fenomeno globale, rafforzato nelle proprie capacità di diffusione da un uso sempre più consapevole del web. Proliferano su Internet siti e blog jihadisti, spesso in grado di sfuggire a una qualsivoglia azione di controllo. Tutti i principali gruppi terroristici dispongono di una propria rivista, attraverso la quale fanno proseliti. Come noto, sul numero di “Inspire” (mezzo di propaganda di AQAP) del marzo 2013 era stata pubblicata una lista di potenziali attacchi terroristici, che comprendeva anche Charlie Hebdo, colpevole di aver offeso l’onore del Profeta Maometto.
Tuttavia, non solo il web è da annoverare tra i fattori che hanno reso possibili gli attacchi di Parigi. Forse ancora più importante dell’esistenza di una piattaforma digitale su cui far circolare materiale di propaganda jihadista è la presenza di numerose zone grigie per il mondo, aree che sfuggono alla sovranità degli Stati divenendo in molti casi epicentri dell’industria del terrore. È in questi luoghi remoti che il pericolo posto da un estremista animato dalla volontà di compiere un attacco terroristico, dapprima solo potenziale, diviene concreto, grazie all’addestramento militare impartitogli.
Uno di questi luoghi è certamente lo Yemen. Secondo quanto rivelato dalle autorità francesi, Said Kouachi si era recato nello Yemen nel 2011, frequentando prima l’Università Imam nella capitale e poi spostandosi presso le basi di AQAP nel sud del Paese, a ricevere un addestramento militare. Durante una delle sue visite sarebbe entrato in contatto diretto con uno dei leader più noti di AQAP (in particolare tra gli stranieri), Anwar al-Awlaki, ucciso nel 2011 dal sospetto attacco di un drone.
Lo Yemen ha a lungo rappresentato una delle mete più ambite per aspiranti terroristi. Fino a circa un anno e mezzo fa la piccola cittadina yemenita di Dammaj ospitava la famosa madrasa Dar al-Hadith, frequentata da centinaia di stranieri giunti nel Paese per ricevere un indottrinamento religioso, e in alcuni casi successivamente reclutati dai gruppi terroristici attivi nella regione. Nel 2013 le milizie sciite al-Houthi si sono scontrate con gli studenti religiosi di Dammaj, riuscendo infine ad avere la meglio. Molti seminaristi hanno successivamente lasciato lo Yemen, mentre altri hanno cercato rifugio in altre zone del Paese.
Le competenze di AQAP sono particolarmente avanzate nella realizzazione di ordigni esplosivi ad alta sofisticazione, grazie soprattutto alla presenza di Ibrahim al-Asiri, tra i più esperti in questo settore. Fu proprio lui a realizzare l’ordigno che sarebbe stato poi utilizzato da Umar Farouk Abdulmutallab nel tentativo di far esplodere l’aereo diretto a Detroit sul quale egli stesso viaggiava, il giorno di Natale del 2009. Abdulmutallab aveva pochi anni prima frequentato proprio l’istituto religioso Dar al-Hadith.
Lo Yemen rappresenta un tipico caso di fallimento dello Stato. Vaste porzioni del territorio nazionale sfuggono alla sovranità di un apparato statale indebolitosi ulteriormente in seguito alle rivolte di piazza del novembre 2011, che hanno segnato la fine del lungo regime di Ali Abdullah Saleh, al potere dal 1990 (anno dell’unificazione tra lo Yemen del Sud e quello del Nord). Sebbene la comunità internazionale continui a indicare nello Yemen uno dei rari successi della cosiddetta “primavera araba”, la situazione nel Paese è tutt’altro che rosea.
Le speranze di una transizione pacifica, inizialmente alimentate da un accordo, mediato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, che prevedeva la creazione di una Conferenza di Dialogo Nazionale, la quale avrebbe dovuto redigere una nuova Costituzione su cui poggiare le basi di una nuova fase politica, si sono presto scontrate con la realtà di un Paese lacerato al suo interno da contrapposizioni tribali e religiose. Le elezioni presidenziali, inizialmente fissate al febbraio 2014, sono state successivamente rimandate a data da destinarsi, comunque non prima dell’approvazione della nuova Costituzione. Intanto, mentre nel sud del Paese proseguono le proteste dei gruppi separatisti, il governo è tenuto in ostaggio dalle milizie sciite Houthi, che hanno preso il controllo della capitale nel mese di settembre in seguito a scontri che hanno provocato centinaia di vittime.
Gli Houthi sono un movimento direttamente sostenuto dall’Iran, interessato a rafforzare la propria influenza sullo Yemen a causa della posizione strategica del Paese sullo stretto di Bab-el-Mandeb e della vicinanza all’Arabia Saudita, suo principale rivale nella regione. La “guerra fredda” tra Teheran e Riyadh vede nello Yemen uno dei suoi principali terreni di scontro. Proprio l’ascesa degli Houthi e il conseguente timore di vedere le proprie esportazioni petrolifere minacciate da una forza finanziata dal nemico iraniano ha spinto l’Arabia Saudita a congelare gli aiuti stanziati per lo Yemen, con gravi ricadute per la popolazione locale. Nel Paese, infatti, è in corso una vera e propria emergenza umanitaria: secondo un rapporto delle Nazioni Unite, oltre la metà degli abitanti verserebbe in condizioni di povertà e circa 13 milioni di persone non avrebbero accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari essenziali.
Di questa situazione ha beneficiato AQAP, che nel corso del 2012 aveva conquistato il controllo della provincia meridionale di Abyan prima di essere scacciata da un’offensiva delle Forze Armate yemenite (coadiuvate da milizie locali e dalle forze aeree americane). Ciononostante, AQAP è riuscita a riorganizzarsi e ad estendere la propria influenza su vaste zone del sud e del sud-est del Paese, in particolare sulle provincie di Marib (ove si trovano i più grandi giacimenti petroliferi dello Yemen), di Shabwa e nuovamente su Abyan. Il gruppo si autofinanzia tramite una vasta gamma di attività illecite: dalle estorsioni alle rapine in banca, passando per i sequestri di persona.
Sebbene l’attuale Presidente dello Yemen, Abd-Rabbu Mansour Hadi, sostenga apertamente gli attacchi dei droni americani, le azioni di contrasto al terrorismo condotte in questi anni hanno avuto un’efficacia limitata. Se è vero che vari esponenti di spicco di AQAP sono stati eliminati (tra questi, come si è visto, il predicatore al-Awlaki), il gruppo possiede tuttora le capacità per mettere a segno attentati di alto profilo. Proprio nel giorno in cui i fratelli Kouachi attaccavano la redazione di Charlie Hebdo, un attentato di AQAP nella capitale yemenita provocava oltre trenta morti e decine di feriti. Negli ultimi mesi, un numero crescente di attacchi ha preso di mira le milizie Houthi, portando il Paese sull’orlo del conflitto civile.
A dispetto della retorica, la comunità internazionale non ha saputo in questi anni accompagnare lo Yemen nella sua delicata transizione da un regime autoritario a un sistema di tipo democratico, preferendo, piuttosto, demandare ad attori regionali questo difficile compito. Una scelta rivelatasi errata, le cui conseguenze, come dimostra l’attacco di Parigi, potrebbero essere ben più gravi di quanto si immagini.
Una volta superata la paura anche l’interesse per lo Yemen tornerà a spegnersi, almeno sino al prossimo attentato, quando, con un misto di timore e curiosità, volgeremo ancora il nostro sguardo sul mappamondo chiedendoci per un attimo cosa succeda in questo piccolo Stato della penisola arabica.
I tragici avvenimenti di Parigi hanno assestato un durissimo colpo a un’Europa già stremata dalla crisi economica, ridestando in tutti noi un forte senso di vulnerabilità. Essi hanno inoltre sollevato una lunga serie di domande, ad alcune delle quali cercheremo di dare risposte qui (era possibile prevenire questi attacchi? Chi sono i responsabili? Cosa li ha spinti ad agire?), altre inevitabilmente destinate a rimanere senza risposta.