Ormai in Italia cambiamo legge elettorale prima di ogni elezione. Segno del degrado della democrazia, che si fonda anche su regole del gioco per definizione rigide
La legge elettorale italiana ha appena due anni di vita, è stata utilizzata una sola volta, il 4 marzo 2018, eppure tutti i partiti, di maggioranza come di opposizione, pensano che vada cambiata. E la stanno cambiando. Ufficialmente perché è stata approvata una riforma costituzionale che ha ridotto i numeri del Parlamento: i deputati sono scesi da 630 a 400 e i senatori elettivi da 315 a 200. In realtà non c’è una necessità tecnica che imponga la modifica della legge elettorale. O meglio, la modifica tecnicamente indispensabile è stata già fatta. È successo prima ancora che fosse approvato definitivamente il taglio dei parlamentari: una leggina firmata dal leghista Calderoli ha fatto del Rosatellum (così è conosciuta l’attuale legge elettorale) un sistema pronto a essere utilizzato a prescindere dai deputati e senatori da eleggere.
Del resto nessuno può dire oggi con certezza quali saranno le dimensioni del prossimo Parlamento. La riduzione è stata approvata definitivamente, ma non è stata ancora promulgata dal momento che entro il 12 gennaio qualcuno potrebbe chiedere il referendum confermativo, così come prevede l’articolo 138 per le revisioni costituzionali. Non saranno i cittadini (proibitivo il numero di firme da raccogliere), non saranno i consigli regionali (avrebbero dovuto chiederlo in almeno cinque e nessuno si è mosso), è probabile però che un quinto dei senatori (65) firmeranno la richiesta che consegnerà al popolo l’ultima parola sul taglio dei parlamentari. Il referendum potrebbe tenersi in una domenica tra aprile e giugno e, vista la precarietà del Governo in carica, non si può neanche escludere che si debba andare prima alle elezioni politiche. Per eleggere di conseguenza ancora 630 deputati e 315 senatori.
Ma i partiti stanno già facendo i conti con i nuovi numeri, quelli ridotti. La maggioranza ha scoperto che il Rosatellum applicato a un Parlamento più piccolo avvantaggia ulteriormente il primo partito e la prima coalizione. I sondaggi non lasciano dubbi sui vincitori annunciati: la Lega e il centrodestra. Questo perché la legge elettorale in vigore assegna una quota significativa di seggi (il 37%) con il sistema uninominale dove prende tutto chi arriva primo e, dal momento che l’elettore può tracciare un solo segno sulla scheda, il vantaggio per le liste maggiori viene travasato anche nella restante quota proporzionale. Le liste più piccole si sono accorte, poi, che con un numero assai più basso di deputati e senatori da eleggere in ogni circoscrizione, la soglia di sbarramento effettiva è assai più alta di quella teoricamente prevista dal Rosatellum (il 3%). Ecco perché hanno denunciato il “danno alla rappresentatività” procurato dal taglio dei parlamentari e hanno chiesto una nuova legge elettorale per rimediare.
Si può pensare che Pd e 5 Stelle abbiano accolto questo allarme democratico o si può pensare che abbiano messo mano alla riforma elettorale per convenienza, per provare a frenare l’avanzata del centrodestra. Fatto sta che a ottobre scorso sono cominciate le riunioni di maggioranza per consegnare agli archivi, con poca gloria, il Rosatellum. Sui giallo-rossi incombe anche la minaccia del referendum abrogativo attraverso il quale la Lega vuol provare a trasformare il sistema elettorale in vigore, misto di proporzionale e uninominale, in un sistema tutto uninominale. Come nel Regno Unito di Boris Johnson. In pratica Salvini chiede di cancellare la quota di collegi plurinominali, che sono oggi il 63% del totale. È difficile che la Corte costituzionale dichiari ammissibile il quesito, che è molto manipolativo, ma se lo farà sarà proprio grazie alla leggina firmata Calderoli che abbiamo già citato. La decisione è attesa per il 15 gennaio.
Al tavolo della maggioranza, il Pd ha proposto all’inizio un sistema elettorale a doppio turno nazionale. Al ballottaggio, cioè, si sarebbero sfidate le prime due liste o coalizioni per contendersi un premio in seggi. Era un modello disegnato su misura per una sfida “finale” tra due proposte politiche agli antipodi – sovranisti contro europeisti – fatto apposta per mettere in ombra le terze e quarte forze. È stato subito scartato. Anche perché ricordava da vicino l’Italicum, la legge elettorale approvata nel 2015 con un impianto assai originale. E mai applicata, perché subito bocciata dalla Corte costituzionale.
Il passo successivo della trattativa è stato orientarsi su un sistema elettorale a base proporzionale. La scelta è coerente con l’esigenza di riequilibrare la rappresentatività, dopo il taglio dei parlamentari. Ma si spiega soprattutto con il fatto che il sistema proporzionale è il più adatto a un panorama politico non più bipolare. Perché consente di cercare le alleanze per il Governo in Parlamento, dopo il voto e non prima delle elezioni. Per Pd e 5 Stelle è indispensabile, visto che i grillini non sono disponibili a entrare in una coalizione elettorale. Fatta la scelta della base proporzionale, però, i partiti di maggioranza si sono divisi sui correttivi da introdurre per evitare il rischio di eleggere un Parlamento troppo frammentato.
La linea di demarcazione nelle trattative di maggioranza è facilmente immaginabile. I partiti più grandi, Pd e Movimento 5 Stelle, sono stati da subito favorevoli a uno sbarramento del 5%. Per l’esperienza del nostro Paese si tratta di una soglia alta: alle ultime elezioni, quando era fissata al 3%, solo sei partiti sono riusciti a entrare in Parlamento. Leu, e in un primo momento anche Italia Viva, hanno rifiutato questa soluzione (Leu alle ultime elezioni ha superato di poco il 3%, Italia viva nei sondaggi non è particolarmente brillante). Tant’è che Leu ha aperto a una soluzione alternativa, a prima vista penalizzante per le piccole liste. Si tratta del modello a “soglia implicita”, in base al quale l’assegnazione dei seggi viene fatta a livello di circoscrizione elettorale. Tanto più grandi sono le circoscrizioni, tanti più deputati e senatori eleggono, tanto più bassa è la soglia implicita. Questo modello viene indicato come “spagnolo” ma presenta alcune differenze importanti con il sistema applicato in Spagna che prevede anche una soglia esplicita di sbarramento (al 3%) e circoscrizioni talmente numerose che le liste medio-piccole possono eleggere deputati solo nelle grandi aree metropolitane.
Naturalmente la trattativa si gioca sui dettagli. Il sistema simil spagnolo può dare risultati assai diversi a seconda che siano disegnate poche (28, come adesso) o molte (42) circoscrizioni (la possibile mediazione è 36). Così come si possono assegnare i seggi con modelli matematici neutrali (come il quoziente naturale) o che premiano i partiti maggiori (D’Hondt). Ma Renzi, dopo un’iniziale apertura, ha detto no a questo sistema a “sbarramento implicito”, che gli assicurerebbe una ventina di seggi in alcune circoscrizioni più grandi ma non è l’ideale per provare a costruire un partito nazionale. Si dice adesso disponibile persino a uno sbarramento nazionale al 5% che rischia di essere fuori dalla portata di Italia Viva. Il sospetto di Pd e 5 Stelle è che abbia voluto bloccare un accordo quasi concluso, contando sul fatto che più avanti la soglia scenda al 4%. O persino, in caso di inerzia prolungata, resti al 3% del Rosatellum. Di certo il dietrofront renziano ha impedito di rispettare l’impegno a presentare un testo di legge elettorale entro Natale. A questo punto si può star certi che sarà la decisione della Corte costituzionale sul referendum leghista, il 15 gennaio, a far ripartire i giochi. O a farli saltare del tutto.
@andreafabozzi
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
Ormai in Italia cambiamo legge elettorale prima di ogni elezione. Segno del degrado della democrazia, che si fonda anche su regole del gioco per definizione rigide